Le voci di Feininger cantano Benevoli
Antonio Cembran
CAPITOLO I | L’EPOPEA DELL’ANNO SANTO
Orazio Benevoli torna a vivere in un memorabile mattino di novembre con l’ultimo sole d’autunno a disegnare il cielo di Roma. Nella basilica di San Pietro una folla rumorosa, gruppi confusi in una marea di voci, la luce che scende dalla cupola. Riflessi altissimi si perdono nella volta, nei tondi dei mosaici, fra i pennacchi, coppie di lesene si affacciano sul vuoto. Il Papa legge l’elenco delle delegazioni, ad ogni annuncio un applauso e quando tocca al Coro del Concilio un grido all’unisono con gli spartiti alzati a salutare Pio XII. Poi il canto rompe il silenzio calato all’improvviso sulla chiesa, dopo che il Coro si è sistemato a ridosso del monumentale pilastro di destra sotto la cupola, a fianco del trono papale. Duecento cantori schierati a semicerchio, ognuno vestito come capita, calzoni corti, giacca, maglioni. I grandi vestiti da grandi. Si era deciso di cantare il Gloria della Messa Tu es Petrus perché comincia con il pieno delle sedici voci, tutte insieme. Avrebbe richiamato subito l’attenzione – scriverà quattro giorni dopo don Lorenzo Feininger in una lettera ai genitori – come un’improvvisa magia. Fu un avvio perfetto, “un’esecuzione eccellente dall’inizio alla fine”. Dopo tre secoli di oblio, alle 11 di mattina di quel lontano 22 novembre 1950, giorno di Santa Cecilia, “la musica di Benevoli finalmente tornava a risuonare nell’ambiente per il quale era stata scritta”.[1]
Il viaggio a Roma fu vissuto nell’epopea degli anni Cinquanta. Famiglie orgogliose dell’avvenimento ma al tempo stesso preoccupate, era la prima volta che i ragazzi andavano così lontano da soli, ma andavano dal Papa, chi l’avrebbe mai detto. Anche i più laici si sentivano un tantino emozionati. Ed anche l’ambiente scolastico, sicuramente aperto alle sollecitazioni culturali che finora però si erano esaurite più o meno dentro le mura della città. Il cinema richiamava i giovani al San Marco con le storie di Pinocchio e del Cuore, le avventure di Zorro, Tarzan, Gianni e Pinotto. La musica proponeva appuntamenti sotto l’egida del Provveditore agli Studi. Il professor Giuseppe Dal Rì, ad esempio, nel marzo del ’48 aveva diramato una circolare a tutte le autorità scolastiche per ricordare il centenario della morte di Gaetano Donizetti. Gli alunni si sarebbero dovuti riunire, insieme a tutti gli insegnanti, nell’aula magna dei rispettivi istituti per ascoltare un programma radiofonico che comprendeva episodi della vita del musicista preparati dalla scrittrice Bebè Gondoni, una conversazione critica del prof. Gastone Rossi Doria e la diffusione di brani d’opera illustrati dal dott. Gino Modigliani.[2]
L’evento era atteso e l’attenzione, più che un obbligo, diventava addirittura un piacere. Il regolamento interno del resto non lasciava tanti spazi alla trasgressione. La scuola – scriveva il direttore Attilio Eccel – deve essere considerata come un tempio “quindi l’entrata nell’edificio dovrà effettuarsi col dovuto rispetto, con ordine, senza correre e gridare”. Sul corridoio, durante la ricreazione, gli scolari circolavano ordinati senza far chiasso e rientravano immediatamente al suono del campanello. E ancora “il comportamento deve essere consono alla serietà e alla santità del luogo. Quindi ubbidienza agli insegnanti e rispetto, amore reciproco fra compagni, rispetto all’arredamento e ai mezzi didattici ed alla pulizia dell’aula”. Al termine delle lezioni i ragazzi si sarebbero dovuti recare “diffilati a casa”.[3] Era vivamente consigliata la frequenza della biblioteca scolastica e fra i libri più gettonati si trovavano Le più belle leggende di Gesù, le Leggende del mare e delle Alpi, La capanna dello zio Tom, I ribelli della montagna, I ragazzi della via Paal.[4] Immaginiamo dunque con quale trepidazione si guardasse in questo clima al viaggio a Roma da protagonisti.
Il Coro partì in treno, tre vetture riservate, lunedì sera 20 novembre. È notte fonda quando attraversa l’Appennino, Bologna e poi Firenze, un’ora fermo in galleria per un guasto alla locomotiva, lunghe soste nella luce fioca delle stazioni. Il sonno prende un po’ tutti, rannicchiati sui sedili di legno, la testa sui finestrini, il risveglio nella campagna romana, colline, prati, qualche casolare. Per molti è il primo grande viaggio della vita. C’è l’incantesimo dell’avventura dentro una sorta di incoscienza vaga, impalpabile, di quello che si va a fare, una straordinaria escursione nella musica antica.
Arrivo alle 9 di martedì mattina, accolti alla stazione Termini da mons. Carlo Callovini per la “Famiglia Trentina” che ha organizzato il soggiorno.[5] Il Coro è ospitato nell’Istituto dei Salesiani in via Tuscolana, dalle parti di San Giovanni in Laterano, camerate per studenti che si aprono su lunghi corridoi, un andirivieni indescrivibile. I cantori prendono posto ma non c’è tempo per riposare, un giro veloce in pullman per la città, i Fori imperiali, il Colosseo, la fontana di Trevi, la basilica di Santa Maria Maggiore. Nel pomeriggio alle 17 il primo concerto in Sant’Ignazio, acustica perfetta, chiesa gremita con personalità del mondo musicale romano (i giornali parlano del prof. Nino Pirrotta – grande estimatore e amico di don Lorenzo – dell’Accademia di Santa Cecilia, che ritroveremo relatore negli anni Ottanta ai convegni di musicologia su Feininger).[6] Presenze mirate, ma anche folla di appassionati. Kyrie, Gloria, Sanctus e Agnus Dei della Tu es Petrus si alternano a brani d’organo di anonimi del Seicento. Segue un programma dell’organista Alessandro Esposito, docente al Conservatorio di Bolzano, che suona Pasquini. Il finale torna al Coro con il Credo. Il tutto registrato da Radio Vaticana che in serata manda in onda il Gloria e intervista due giovani cantori, Luciano Moser e Severino Carli.
Il concerto apre una due-giorni dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia per celebrare, nella fastosità dell’Anno Santo, la patrona della musica. È registrato con il numero 3405[7] e commentato felicemente, in una corrispondenza con Feininger, per l’importante “contributo alla valutazione storica e artistica di un grande musicista della scuola polifonica romana, le opere del quale sono al giorno d’oggi quasi completamente ignote anche agli specialisti”. Sul Coro poi l’elogio per “la vitalità e l’armonica fusione” e infine l’incoraggiamento a riportare alla luce “importantissimi valori della musica religiosa che le difficoltà di esecuzione destinerebbero altrimenti a quasi completa dimenticanza”.[8] Per Feininger, che compare nell’elenco dei direttori ospitati accanto a Gianandrea Gavazzeni e a Wilhelm Furtwaengler, è la conferma di una strada da seguire.[9] Il giornale Il Popolo Trentino parla delle “grandiose architetture policorali che assomigliano a un vero affresco con infinite prospettive come quelle del grande pittore trentino Andrea Pozzo che ritrae nella volta della navata la gloria di S. Ignazio”.[10]
Altra esecuzione il giorno dopo, mercoledì 22, prima di lasciare i Salesiani, Kyrie e Credo nella chiesa dell’istituto. Poco dopo, in San Pietro, si canterà il Gloria davanti a una folla di pellegrini e gruppi di mezza Europa, Irlanda, Spagna, Belgio e ancora Brasile, Indonesia, Colombia. Una quarta uscita (la terza nello stesso giorno, in serata prima di ripartire per Trento) nella Chiesa Nuova di corso Vittorio Emanuele.
Le giornate di Roma avevano proiettato il Coro del Concilio, nato appena un anno prima, nell’ottobre del ’49, in un mondo nuovo, in un confronto a distanza con gruppi forse più qualificati, forse più preparati, forse più in sintonia con i grandi problemi acustici e musicali del concerto polifonico. Ma nessuno ne fu spaventato. In quei giorni si suonò e si cantò dappertutto. Palestrina e Perosi con il Coro Polifonico dell’Accademia, altrove Mascagni e Giordano, Wagner e Rossini. “Il Coro del Concilio di recente formazione – si legge su Il Giornale d’Italia – si fa già notare per la passione che lo anima e per i buoni risultati raggiunti”,[11] mentre per L’Osservatore Romano, che al Coro dedica un titolo di apertura di prima pagina, “il canto polifonico si è levato per alcuni minuti sulla densa assemblea quale dimostrazione della fede che valica le epoche e impavida permane oltre le vicende umane”. E tutti riportano le parole di papa Pacelli: “vi siete fatti molto onore”. Il giornale del Vaticano scrive addirittura di una Schola cantorum che si denomina Coro del Concilio.[12] In casa nostra Vita Trentina commenterà il successo di Roma al rientro del Coro, ricordando “le ardite polifonie, le festose risposte fra coro e coro, gli sviluppi grandiosi convergenti in onde armoniche di ampiezza oceanica”.[13]
L’esecuzione in San Pietro fu il primo passo del monumentale progetto di ridare voce alla musica della scuola policorale romana che animò il lungo soggiorno trentino di Feininger; e fu anche il fiorire di un sogno per i duecento cantori protagonisti di un prodigio impensato, quello di “cantare – ripeterà sempre con orgoglio don Lorenzo – come strumenti senza nessun’altra espressione se non la bellezza naturale delle loro voci, della loro genuinità e della musica”, voci non impostate più di tanto, voci che seguono l’estro del momento, che esprimono la timidezza, il coraggio, l’emozione, cosa che avrebbe poi aperto, come vedremo, una disputa interminabile sul valore del Coro, lontano e distaccato – per scelta stilistica – dal tono cosiddetto corale della scuola romana.[14]
A Trento era approdata la vita intellettuale di Lorenzo Feininger vissuta intensamente fra strumenti (il piano, l’organo, il violino, il flauto), scavi profondi nella storia della musica e studi di teologia. Era nato a Berlino il 5 aprile 1909. Il padre – il grande Lyonel – pittore ma anche violinista precoce, un genio dello strumento, organista e compositore, così come musicisti di professione erano i nonni paterni che avevano passato la vita in lunghe tournée di concerti (Karl violinista, Cecilia cantante e pianista); la madre – Julia Berg nata Lilienfeld – donna di cultura con i piedi ben piantati per terra, che avrebbe vigilato per tutta la vita sulle vicende artistiche di questa famiglia di genii (un fratello di Lorenzo, Andreas, fotografo di fama, l’altro, Lux, pittore e insegnante) controllando perfino lo stile inglese del figlio quando questi non si esprimeva in tedesco, in italiano o in latino. I suoi primi maestri sono Hans Brönner e Willy Apel, uno dei massimi cultori della musica polifonica. Studia pianoforte fino all’abilitazione, poi si dedica all’organo ad Eisenach con Paul Hopf e quindi ad Hannover, che poi lascerà per ritornare a Berlino; ma lo troviamo ben presto ad Heidelberg a seguire corsi universitari di musicologia con Heinrich Besseler e di filosofia con Karl Jaspers. Frequenta in quegli anni anche un padre benedettino del monastero di Stift-Neuburg, vicino ad Heidelberg, dove nel maggio 1934, “attratto e convinto, più che da qualsiasi altra cosa, dalla sua meravigliosa liturgia”, si avvicina alla Chiesa cattolica e si fa battezzare.[15] Un anno dopo si laurea ad Heidelberg in storia della musica, arte e filosofia con una tesi sullo sviluppo storico del canone.
Nel 1937 la famiglia Feininger fugge dalle intimidazioni naziste e si stabilisce negli Stati Uniti. Lorenzo sceglie invece l’Italia nonostante le insistenze contrarie dei suoi (Firenze, poi Roma), il Paese che intreccia nei secoli canto e liturgia, storie di Papi e riforme del pensiero cattolico, il Paese più ricco di fonti musicali della Chiesa. Il suo fantastico girovagare fra le armonie lo porta a Trento in quello stesso anno, attratto dai Codici musicali che studia a fondo e trascrive. Ma la guerra lo costringe presto a lasciare la città. Viene arrestato e trascorre una notte in questura e al mattino prende la via del castello di Montechiarugolo, dove resta internato, dai primi mesi del ’43 fino al settembre del ’44, in un campo per prigionieri civili in quanto cittadino americano su suolo straniero. Tornato in libertà, entra in Seminario, che frequenta in parte a Trento, in parte a Malè dove le aule di teologia si erano trasferite, sfollate come era toccato a decine di famiglie nei vari paesi del Trentino. Il suo ingresso aveva suscitato non poche perplessità in chi considerava quella vocazione in gran parte sollecitata dai timori delle vicende belliche.
In val di Sole il Seminario era stato sistemato in due alberghi, Alpi e Malè, e Feininger, al quale viene assegnata in quest’ultimo una stanza con balconcino, non ci pensa due volte a mettere in piedi un coro a quattro voci. Riempie le giornate di teologia e di canto e va avanti con le sue ricerche. In paese ha fatto buone conoscenze. Diventa amico di Leopoldo Rauzi al quale affida il vecchio violino di famiglia con tali e tante raccomandazioni che soltanto quando glielo potrà restituire, a guerra finita, Leopoldo tirerà un profondo sospiro di sollievo. Completerà gli studi di teologia nel Collegio Capranica di Roma, dove entra nell’autunno del 1945. Aveva sperato fino all’ultimo di poter concludere il ciclo a Trento, ma era fin troppo evidente che la sua figura non poteva risultare organica all’impianto della Chiesa trentina. Respirava una cert’aria di diffidenza da parte della Curia e del Seminario verso il suo modo di pensare e di essere, ma era altrettanto chiaro che non avrebbe concepito di girare per le valli trentine a fare cura d’anime. Non sentiva quella come la sua strada. Così trova a Roma il cardinale Micara che gli apre le porte, gli offre di insegnare musica, lo fa entrare nel Collegio Capranica e lo segue fino all’ordinazione sacerdotale che avviene il 29 giugno 1947 nella Basilica Lateranense, con incarico nella Diocesi di Velletri.
Ha 38 anni quando si stabilisce definitivamente a Trento, prete e musicista, avviando le prime esperienze corali con Du Fay e con Pierre de la Rue.[16] Ha in mente una conferenza e un concerto da organizzare a Trento in occasione del congresso di musicologia del maggio 1948, un primo assaggio delle difficoltà che non lo abbandoneranno mai. Fa un viaggio in treno da Roma a Trento con cinque coristi romani ai quali avrebbe affiancato cantori trentini con l’aiuto dei vecchi amici conosciuti prima della guerra, Renato Lunelli e Dario Segatta (li ricorda in una lettera, il primo “musicista eccellente”, il secondo “prossimo alla laurea in medicina oltrechè al titolo di maestro di violino”).[17] Coltiva buoni rapporti anche con Bruno Betta e Beppino Disertori, con Preve Renè Ceccon, del quale mette in musica un testo teatrale (Il Giullare di Dio) e Italo Giongo, esponente di spicco del Pci trentino. Si poteva pensare che don Lorenzo non avesse grande simpatia per questa tendenza politica, ma in realtà il suo anticomunismo era esclusivamente riferito a quel comunismo che aveva conosciuto in altri tempi e in altri luoghi, quello che aveva tanto l’odore della dittatura.
Improvvisamente però il gruppo romano rinuncia all’incarico e Feininger si trova a ricostruire il concerto in soli tre giorni con ragazzi dei Salesiani e del coro di Santa Maria Maggiore. Nasce qui, si può intuire, la prima lontana idea di creare un coro tutto trentino.
Guardando allo scenario immobile della musica antica, Lorenzo Feininger coltiva il sogno di un’architettura universale, la pubblicazione dell’intero patrimonio corale della liturgia cattolica partendo dallo studio delle fonti originali. In questo affascinante viaggio nel tempo si butta con tutte le forze. Diventa collaboratore scientifico alla Biblioteca Vaticana (praticamente il responsabile del settore musicale) e al Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma. Fonda con mons. Carlo Respighi la Societas Universalis Sanctae Ceciliae, con la quale dà inizio alla pubblicazione dei Monumenta Polyphoniae Liturgicae Sanctae Ecclesiae Romanae e dei Documenta Polyphoniae Liturgicae Sanctae Ecclesiae Romanae. Nei primi, a carattere scientifico, ripropone i segni originali dei manoscritti con le chiavi e i simboli metrici, e i testi talvolta non collocati correttamente sotto le note, il tutto con la prefazione rigidamente in latino; nei secondi, a carattere cosiddetto pratico, colloca il testo al posto giusto, sostituisce le chiavi antiche con chiavi moderne e dimezza i valori originali delle note. Lontano da compromessi nelle edizioni scientifiche, materiale ideale per lo studente di musicologia (come osserva Lowinsky in un suo saggio nel 1977) Feininger dimostra invece nelle edizioni pratiche “la più auspicabile duttilità”.[18] Ai giovani cantori del Coro, secondo la sua ferrea idea dello studio, insegnerà – pare ovvio – la lettura dei primi, anche se faciliterà poi loro le prove di canto trascrivendo i singoli spartiti nelle chiavi moderne.
Nei grandi spazi della musica barocca scopre Orazio Benevoli e comincia a trascriverne l’opera dal Fondo della Cappella Giulia. C’è in lui uno stile arioso, di una vastità mai prima sognata. Scrive: “Riesco a vedere ora, in questa musica barocca colossale, uno sviluppo profondamente logico e, da un punto di vista liturgico, così valido da raggiungere con ogni probabilità l’acme assoluto di ciò che potrebbe essere toccato”. Ma la cosa sconvolgente, veramente nuova, moderna, è l’uso del cantus firmus “impiegato come mezzo per un’espressione musicale in grado di rapire concretamente una moltitudine di persone devote, portandole ad uno stato molto vicino all’estasi”.[19] E guardando all’arte dell’epoca – aggiungeva – viene naturale accostare il Benevoli al Bernini così come un secolo prima si poteva accostare Michelangelo a Palestrina.[20] Deluso, tuttavia, perché nessuno a Roma pareva interessarsi alla musica nei programmi dell’Anno Santo, il 18 settembre del 1949 annuncia ai suoi “questo è il motivo per cui vado a Trento, per vedere se posso metter su un coro per la Messa di Benevoli”.[21]
La prima idea è quella di reclutare i ragazzi (soprani e contralti) nelle scuole elementari della città e di affidarsi ai cori parrocchiali per le voci adulte, tenori e bassi. C’è subito “l’incondizionato appoggio” del Provveditorato agli Studi (provveditore è Giuseppe Dal Rì) con la piena collaborazione del direttore coordinatore dei Servizi scolastici di Trento, Vittorio Marchesoni (pure assessore comunale alla pubblica istruzione nella Giunta Ziglio), che assieme a Feininger firma le prime circolari alle famiglie perché garantiscano la frequenza dei ragazzi alle prove in vista del concerto di Roma per il Giubileo.[22] Nella sua corrispondenza Feininger fa sapere di aver incontrato un direttore “molto intelligente e di ampie vedute”.[23] Il Coordinamento scolastico di Trento sostiene il programma aprendo le porte delle scuole e l’entusiasmo contamina subito un personaggio del mondo musicale e scolastico del tempo, il maestro Iginio Mattei, che affiancherà il Coro come “istruttore e sottomaestro”.[24]
Trento è una città che ha ripreso a vivere lentamente dopo la guerra. Le tracce non sono ancora completamente cancellate, il rione della Portela ne denuncia segni evidenti ma i più giovani del Coro, che frequentano le prime classi delle elementari, hanno vissuto quegli eventi con la beata incoscienza dell’età. Molte famiglie si erano allontanate dalla città rifugiandosi nelle valli, in piccoli paesi dove il rombo degli aerei arrivava soprattutto con i racconti di papà, se a fine settimana riusciva a tornare a casa.
Ora l’aspirazione di tutti era quella di rientrare nella normalità e che cosa mai poteva essere più normale di un grembiule nero col colletto bianco, divisa degli scolari ritratti nelle fotografie di fine anno. I maestri non facevano grandi sforzi a tenere la disciplina, perché il lavoro dei genitori a monte aveva già fatto la gran parte. Braccia in seconda durante la lezione e un rispetto misto a timidezza nell’approccio con gli adulti. La parola solo se direttamente interpellati. Possiamo immaginare come il ciclone Feininger sia stato accolto, lui che al suo rigore tedesco abbinava una scioltezza tutta americana che sfuggiva a certe regole della chiusa tradizione trentina. Già un primo tentativo di abbigliamento estraneo all’abito sacerdotale d’ordinanza aveva provocato un piccolo choc. Si era presentato agli inviti a pranzo, occasione di conoscenza e amicizia diventata ben presto un’abitudine, con un soprabito a scacchi verdi sopra la lunga tonaca (che più tardi – e in occasioni non ufficiali – avrebbe sostituito con il clergyman). E solo dopo qualche insistenza decise di farlo tingere in nero. Inviti ripetuti con appuntamenti regolari, anche solo per un caffè doppio rigorosamente senza zucchero (lo prendeva zuccherato soltanto il venerdì, per fare penitenza), dai Crepaz, i Segatta, i Grigolli, i Mattei, i Lunelli, i Tafner, i Piazza, i Disertori, i Lucchi (i due fratelli, Giuseppe e Cornelio, sono fra i primi cantori legati alla nascita del Coro), i Calliari che ogni anno, il 23 luglio, festeggeranno con lui il compleanno di papà Lino. Quindi i Paoli, una famiglia di campagna (Sergio cantava da basso) che a Campotrentino ospitava anche i ragazzi in avventurose giornate di sole e di verde fra lunghi filari di ciliegi. Poi molti altri, in un rapporto di stima reciproca che a lui consentiva di capire più in fretta la mentalità delle famiglie e di dare qualche consiglio, insistendo per esempio affinchè noleggiassero un pianoforte se il ragazzo si dimostrava particolarmente sensibile al richiamo musicale. E alla fine del pranzo, se c’era un piano, offriva un “concertino”, un po’ di Mozart e l’immancabile Rondò alla turca, le stesse note con cui dava ogni sera il segnale di chiusura alla Juventus, il Circolo studentesco dove i giovani passavano il tempo chiacchierando o giocando a dama, a scacchi, alle pulci.
In una prefazione Luigino Mattei, giornalista, ricorda come “l’americano” fosse chiamato “il dottore”.[25] Un genio, lo definisce, un patito della musica. Nel riassumere la sua storia racconta come la dichiarazione di guerra lo avesse colto mentre era intento a ricopiare vecchi codici musicali nelle buie stanze del castello del Buonconsiglio. Microfilmava (e questa tecnica d’avanguardia destava grande stupore) e trascriveva con minuziosa precisione migliaia di note raccolte negli archivi musicali di mezza Europa, Monaco e Vienna, Bruxelles e Londra, Lisbona, Berlino, Regensburg e nella biblioteca del Conservatorio Martini di Bologna, a San Giovanni in Laterano, nella Cappella Giulia a Roma e ancora nella Cappella Sistina e fra i vecchi scaffali di Napoli, Verona, Modena, Treviso. Un lavoro per il quale non si faceva alcun problema a mobilitare forze o a sfruttare amicizie. Importava poco conoscere o meno le cose, esperti si poteva diventare anche sul campo come era toccato a Giorgio Grigolli (uno dei suoi fratelli, Riccardo, avrebbe poi cantato nel Coro), studente di scienze politiche a Roma e conosciuto nel giro della Juventus, al quale Lorenzo Feininger rifilava tra un viaggio e l’altro pacchi di foto e di schede musicali da ricopiare e sistemare.
Trento era provincia profonda, allora, ma non significa che la cultura fosse considerata un’opzione di nicchia e così i nuovi orizzonti fatti intravedere da questo prete originale furono ben accolti da genitori felici di poter offrire spunti nuovi di crescita ai propri figli. Visto bene dal mondo laico, un po’ meno – con una sorta di sospetto e diffidenza – dall’ambiente cattolico poco tollerante nei confronti di chi sfugge a modelli consolidati, Feininger viveva la vita cittadina cercando di comprenderne l’anima. Nella primavera del 1950 partecipa perfino alla festa degli alberi in Bondone. Descriverà poi la giornata al fratello dicendo che i ragazzi ufficialmente piantavano un alberello, ma in realtà ne rovinavano almeno due.[26] È il suo humour, come quando spedisce ai cantori una circolare da restituire con la firma dei genitori avvertendo che “quei pochi di voi che sono maggiorenni la facciano vedere a se stessi”; o quando, dovendo proporre una prova generale la domenica mattina in vista di un concerto, scrive ai cantori che stiano pure tranquilli, tanto sicuramente quel giorno sarebbe piovuto. Racconta anche simpaticamente, in una lettera, che per garantire silenzio in camera nei campeggi estivi, all’ora di dormire, bastava far ascoltare ai ragazzi i nastri delle registrazioni: “non resisterebbero ad un secondo ascolto”. Un humour che il fratello Lux definiva di stile inglese e che di fronte agli ostacoli lo aiutava a rimanere saldamente sulla via da seguire. Un’arma efficace per tagliare ogni discussione. Così come, per concludere un incontro, il saluto di commiato era uno strampalato “andressimo”.
Si sposta in bicicletta – le automobili in città possono contarsi ancora sulle dita – finchè un giorno gliela rubano ed è costretto ad andare a piedi. Va e viene dalle Laste dove abita i primi tempi al numero 18 in casa Crepaz oppure da Cristo Re, in via Cardinal Morone, dove i Piazza lo ospitano in una stanza tutta sua che lui organizza in modo scientifico ma spartano. Si fa costruire una scrivania in legno chiaro delle dimensioni millimetriche di una parete, piena di cassetti nei quali sistema centinaia di foto, carta da musica, manoscritti, penne e pennini, schede. Il resto della stanza è occupato dal letto, un armadio, l’armonium. E poi testi di musica, Bach nelle edizioni tedesche della Breitkopf, studi e ballate di Chopin della Ricordi rilegati in tela verde, ma soprattutto Mozart, il suo autore preferito, libri di alpinismo (leggeva Rebuffat) e di archeologia, il flauto, il vecchio violino, un paio di scarponi. In un angolo la bacinella per lo sviluppo delle foto.
La macchina del Coro si muove in fretta. Con un armonium portatile, a valigetta, don Lorenzo si era presentato all’apertura dell’anno scolastico 1949/1950 nelle elementari di Trento. Dentro e fuori da una classe all’altra. Un giorno le Verdi, poi le Crispi e le Sanzio. Portamento distinto, tonaca lunga fino a terra di un nero pulitissimo, mai una sfumatura di lucido (gliela lavavano in casa Bronzini – Paolo e Marco erano cantori – dove ogni venerdì lasciava quella sporca e ritirava quella stirata), la lunga fila di bottoni ordinatamente chiusi, colletto bianco, aria bonariamente severa. Dall’alto della cattedra, suscitando la curiosità e il timore degli scolari, li sottopone a una brevissima serie di vocalizzi che lì per lì sembrano un’eternità. Esercizi sulle scale e sugli intervalli di terza e di quinta e per finire scale cromatiche. Questo breve esame è sufficiente ad accertare estensione della voce e senso musicale, quel tanto da sapere chi può cantare da soprano e chi da contralto.
Nelle classi c’è fermento e d’altra parte di novità assoluta si tratta. Allora non erano frequenti le occasioni al di fuori delle materie scolastiche. La ciliegiata a Gocciadoro, quella sì, quando il terzo trimestre era agli sgoccioli e il mese di maggio cantava le arie della primavera. Anche le gite, qualche volta. Al Cimirlo per vedere Trento dall’alto, sul Doss Trento per parlare di Cesare Battisti e del suo amore per l’Italia, a Rovereto per visitare la casa di Antonio Rosmini. O anche semplicemente una puntata alle Aziende Agrarie nei giorni della fiera di San Giuseppe. Nel marzo del ’50 anche la Madonna Pellegrina era diventata un avvenimento immortalato a scuola dalle foto ricordo. Una scuola severa. Quando suona il campanello tutto si ricompone. Il maestro prende posto dietro la cattedra e sul registro segna i voti ma anche le annotazioni più varie, così che è possibile leggere commenti come questi: “Pontalti e Zatelli fanno la cura dell’olio di merluzzo” oppure, con un inappellabile giudizio di merito, “ne ho pochissimi di intelligenti, 7 sono zavorra, non so a cosa attribuire la cosa. Sono nati nel 1943, forse è causa la guerra, forse circostanze che non conosco”.[27]
Feininger arriva e rompe gli schemi. Nel programma scolastico il canto è considerato “forma di espressione che per natura è sinonimo di gentilezza. Si esiga pertanto – così sta scritto – che cantino a fior di labbra e si insista nella giusta impostazione della voce che non deve essere nasale né di gola, ma deve poggiare naturalmente nel retrobocca. E ancora: non si trascuri il canto all’aperto, da fermi e marciando”. In qualche registro di classe le lezioni di canto sono assimilate a esercizi di emissione della voce, esecuzione di filastrocche, canti facili, canzoni della Madonna, l’Inno del Piave, l’Inno del Trentino e la Valsugana. Quindi il rigo musicale e le note. Sono per lo più annotazioni che riempiono la colonna di destra del registro di classe sotto il titolo “Cronaca di vita della scuola e osservazioni sugli alunni”.[28] Feininger propone invece ben altro.
La prima selezione porta ad uno schieramento massiccio di voci bianche, 90 soprani e 67 contralti. Per tenori e bassi si guarda ai cori parrocchiali di Santa Maria Maggiore e di San Pietro. Qualcuno viene anche da fuori Trento. Del coro di Campotrentino con Sergio Paoli c’è Luigi Sembenotti, da Mezzocorona arriva Sisinio Toniolli, voce lirica che riuscirà con difficoltà a convertire alle esigenze della polifonia barocca.
All’oratorio di San Pietro si fanno le prove generali. Il Coro occupa l’intero palcoscenico costringendo don Lorenzo a indietreggiare fin sul loggione per poter avere la visione differenziata dei duecento cantori. Si è costruito un megafono di cartone per farsi sentire e sovrastare il gran vocìo. Prove anche nella sala Zanella dell’oratorio di Santa Maria e alle Crispi. Le voci bianche sono affidate alla guida di giovani maestre, insegnanti di canto o musiciste, come Giuditta Bellante che canta nel coro di Mingozzi, Rigatti, Asteria Frachetti insegnante di piano, Berlanda, Laura Nones, Francesca Deanesi. Dovrebbero essere otto, una per ogni gruppo di voci bianche, ma in realtà sono sei perché un gruppo di contralti è accompagnato con voce di testa dal maestro Mattei e uno di soprani è guidato da Roberto Martinello, capocoro in San Pietro.
Il Coro prende forma. I duecento cantori, chi più chi meno musicalmente sprovveduto, entrano presto in simpatia con l’austerità di queste note. L’impatto è seducente. C’è un vortice di emozioni che avvince, il piacere per melodie insolite, anche gioiose, per armonie mai sentite. Il Gloria, che sarebbe diventato il pezzo forte di quel primo repertorio, “si chiude con una grande fuga, un lavoro contrappuntistico senza precedenti, senza seguito, paragonabile alle più grandiose scritture di Bach”. Uno sviluppo travolgente. Feininger parla di “sommo trionfo”.[29]
La Messa Tu es Petrus è articolata in quattro cori, ciascuno con le voci del quartetto classico: soprano, contralto, tenore, basso; in tutto quattro gruppi di soprani, quattro di contralti, quattro di tenori, quattro di bassi. Ognuno deve impadronirsi della propria parte, sedici parti una diversa dall’altra; poi deve imparare a cantarla nell’insieme del proprio coro, quindi nell’insieme generale delle sedici voci. Ogni coro ha una vita polifonica indipendente, ma poi si armonizza con gli altri tre sviluppando “vere e proprie fughe corali a sedici voci”, come ricorda Renato Lunelli. Si fanno prove per singole voci, prove di coro, prove generali, ogni settimana un giro completo, un allenamento senza respiro con il traguardo di portare Benevoli a Roma, anzi di riportarlo nella sua città, davanti al Papa.
Il Coro del Concilio sarebbe stato infatti fra i protagonisti dell’Anno Santo. Nella primavera del ’50 don Lorenzo aveva dato l’annuncio durante il congresso internazionale di musica sacra al palazzo della Cancelleria di Roma. Aveva presentato Orazio Benevoli come un grande dimenticato, un musicista che seppe “creare un mondo musicale con spazialità infinite, generate dal sapiente uso di un immenso complesso di parti corali suddivise in diversi cori”.[30]
La platea del congresso è la più qualificata per accogliere la notizia. Renato Lunelli, organista, organologo e compositore, ma anche critico musicale al quale la cultura trentina guardava con rispetto e da subito amico del Coro, parla dell’organo barocco; mons. Celestino Eccher del recupero della polifonia sacra attraverso la fondazione di cappelle con cantori volontari. Feininger tiene una relazione Sulla necessità di catalogare tutto il patrimonio di musica sacra ancora esistente. A Trento gode di fama e di grande stima, pur nella circospezione che sta accompagnando il suo ingresso musicale in città. I giornali danno notizie del Coro. Ospitano note e messaggi di questo prete musicista un po’ tedesco e un po’ americano che qui ha conosciuto una città dalle capacità artistiche importanti, in grado di accogliere l’idea geniale di esumare proprio nella patria del Concilio una parte notevole dell’avventura musicale barocca. Ne parlano i tre quotidiani – c’è l’Alto Adige, ci sono Il Gazzettino e Il Popolo Trentino che nel ’51 diventerà l’Adige. Il panorama della carta stampata sulla città è completato dal settimanale Vita Trentina, mentre l’informazione radiofonica si affidava in quegli anni Cinquanta alla voce di Mario Paoli, corrispondente da Trento della RAI di Bolzano.
Il Coro è visto come occasione culturale di portata innovativa. Bisogna però fare i conti con la barriera dei secoli, c’è il veto della Chiesa sul canto femminile nelle celebrazioni liturgiche, come dispone il Motu proprio “Inter Sollicitudines” di Pio X, documento di indirizzi sulla musica sacra nelle chiese. Il testo pontificio ricorda nel lontanissimo 22 novembre 1903 (giorno di Santa Cecilia) che le donne, “essendo incapaci di tale officio – vale a dire “l’officio” liturgico al quale sono invece abilitati gli uomini anche nella semplice veste di cantori – non possono essere ammesse a far parte del coro e della cappella musicale. Se si vogliono adoperare le voci acute dei soprani e dei contralti, queste dovranno essere sostenute dai fanciulli, secondo l’uso antichissimo della Chiesa”.[31]
Mano pesante anche quarant’anni dopo, nell’enciclica Mediator Dei di Pio XII, attuale ai tempi del Coro del Concilio, che nel novembre 1947 recita testualmente “le donne non possono cantare nelle sacre funzioni, se non in quanto fanno parte o rappresentino il popolo. Tuttavia il Vescovo potrà permettere che le fanciulle o donne, dai banchi a loro assegnati in chiesa, cantino le parti della Messa … conservando la separazione dagli uomini, ove si conserva questa lodevole consuetudine”. E ancora “dove si tiene l’officiatura corale non si ammette il solo canto delle donne se non per una causa grave da riconoscersi dal Vescovo, con i dovuti riguardi per evitare ogni disordine. Perfino le suore autorizzate a cantare nella propria chiesa, devono cantare da un luogo dove non sono viste dal popolo”.[32]
Del resto la vita delle donne sia sempre stata in salita ce lo ricorda anche San Paolo nella prima lettera ai Corinti ammonendo “mulier taceat in ecclesia”.[33] La Chiesa non ha mai aperto loro volentieri le porte se non nel ruolo di fedeli, dove invece diventano l’elemento più importante per numero e qualità. Più attente nel partecipare al rito, più pazienti nell’ascoltare le prediche la cui lunghezza eccessiva, talvolta, invogliava gli uomini a uscire sul sagrato. Nei paesi fino a pochi decenni fa le due bancate erano rigorosamente riservate l’una ai maschi e l’altra alle femmine, nessuna commistione se non nelle voci quando intonavano “Noi vogliam Dio”, attacco dei primi seguiti dai secondi, parti separate e parti unite in un’armonia complessiva musicalmente imperfetta ma di grande atmosfera. E accanto al prete sull’altare nessuna ragazzina avrebbe mai potuto indossare la tonaca da chierichetto.
Ma il tempo adesso cominciava a correre, gli angeli del focolare avevano spinto le figlie oltre l’uscio a frequentare scuole superiori, a cercare un’occupazione, a prepararsi per quella parità che non molto tempo dopo sarebbe diventata un diritto richiesto a gran voce. E anche la città, che si era scrollata di dosso la paura della guerra, cercava un respiro più ampio. Sulle strade passano le Balilla e la carrozza è ormai diventata elemento di folclore. In piazza Duomo suona la Banda di Trento e al teatro Sociale il maestro Antonio Pedrotti, una delle grandi firme che armonizzavano i canti del Coro della SAT, dirige ottima musica. E mentre nelle valli sopravvive ancora un’economia agricola che vede molti lavori della campagna e della stalla affidati alle donne, in città l’aria di provincia si sta diradando per lasciare entrare qualche spiffero di novità. A passo lento, com’è abitudine sui sentieri alpini.
Anche il Coro del Concilio partecipa a questa spinta in avanti, ma si deve adeguare alle direttive. Resta però il fatto che senza le assistenti i ragazzi non sono in grado di cantare, almeno per il momento: “senza la guida per ogni parte sostenuta dai ragazzi non si può garantire un’esecuzione sicura e in tutto degna del culto”. È la secca conclusione di Feininger.
Intanto va e viene da Roma e ad un certo punto si teme che la breve vita del Coro possa spegnersi ancora prima dell’alba. Una risposta potrebbe darla solo la Sacra Congregazione dei Riti che dal 1588 regola i riti della Chiesa latina e che sarebbe quindi in grado di concedere dispense in materia di culto e di pronunciarsi sull’autentica interpretazione delle norme. Il carattere stesso della polifonia classica, già complicata e difficile per cantori adulti pratici di canto e di teoria, giustificherebbe la presenza di un’assistente per le voci bianche. A Roma si impiegano uomini falsettisti come guide. Fuori Roma di falsettisti non se ne trovano e “farsi guidare da uomini sul proprio tono (cioè un’ottava sotto il tono dei ragazzi) disturba e addirittura rovina l’esecuzione”, sostiene Feininger. Unico rimedio sono pertanto le donne. Questo il quesito raccolto in un documento conservato nell’archivio Lunelli, con il quale si chiede in definitiva “qualche indicazione che metta in evidenza la questione e che, se non in via generale, almeno in via particolare riconosca il carattere specifico di queste esecuzioni quanto mai atte ad elevare alla vera devozione”. Il testo, che non si sa se sia stato o meno inoltrato alla Sacra Congregazione, fa esplicito riferimento al fatto che l’utilizzo di voci guida femminili nelle prime esecuzioni della Messa Tu es Petrus ha suscitato a Trento “la protesta del delegato diocesano mons. Celestino Eccher e che Sua Altezza il Principe Arcivescovo di Trento, mons. Carlo de Ferrari, informatosi bene della questione aveva deciso di permettere l’esecuzione delle donne extra chorum”.[34]
Celestino Eccher aveva studiato musica sacra all’Istituto pontificio di Roma, allievo di Paolo Ferretti per il gregoriano e di Raffaele Casimiri per la polifonia classica. Nella dialettica con Lorenzo Feininger annovera conoscenze profonde nel contrappunto, come discepolo di Dobici, e nella composizione. A Trento era diventato presto direttore della Cappella musicale del Duomo e insegnante di musica nei due Seminari. Nella sua ricca biografia c’è anche la creazione della Scuola diocesana di musica sacra per capicoro parrocchiali.
Don Alberto Carotta, che lo seguirà negli anni Ottanta alla direzione della Scuola diocesana, lo definisce – nella biografia di Amelio Fiorini –[35] “di una sapienza contrappuntistica rara tra i suoi contemporanei”, e ne sottolinea anche “l’atteggiamento di incondizionata obbedienza alla voce della Chiesa e quindi non meraviglia che le disposizioni rivoluzionarie del Concilio Vaticano II in campo liturgico-musicale lo abbiano trovato pronto a piegare il suo talento alle nuove esigenze”. Lui rappresenta l’autorità istituzionale, ha una precisa responsabilità diocesana. Feininger al contrario è espressione di una cultura musicale libera, contesta il mondo accademico e l’insegnamento universitario (“dovremo esigere di più dai nostri studenti di musicologia perché stanno perdendo ogni contatto con la notazione e con la prassi originali”),[36] ha studiato il canone come nessun altro e vive la sua vita di musicologo in guerra fredda con il resto del mondo. È indiscussa la sua “capacità di esplorare stilisticamente qualsiasi frammento musicale, qualsiasi partitura”. Il suo pensiero è ancorato al latino, ricorda ancora Lowinsky: “senza latino non ci sarebbe stato né canto gregoriano né polifonia religiosa, né certamente liturgia sacra e senza liturgia tutto il suo lavoro sarebbe stato fatto per nulla”.[37]
Feininger si era presentato in città con un’autorevolezza scientifica indiscussa e con un’apparente indipendenza economica che sembrava garantirlo dai venti e dalle tempeste. Non fu però così nei primi anni, quando ancora i collegamenti con la famiglia erano complicati e gli aiuti dagli Stati Uniti tardavano ad arrivare a Trento dove viveva dell’aiuto dei tanti amici, dava lezioni di piano e di flauto e scriveva su Voci Bianche: “Dobbiamo deciderci a giocare alla Sisal, sistematicamente e con metodo, sono sicuro che Santa Cecilia ci darà una mano, però intanto voi fate la vostra parte”.[38]
Va da sé che le posizioni dei due non possono coincidere. Don Lorenzo con il suo Coro “stravagante” avrà vita dura a cantare in duomo in quanto cattedrale, cioè sede di cattedra vescovile, luogo esemplare che non concede sviamenti; avrà via libera invece altrove a partire da San Francesco Saverio, che diventerà subito la chiesa ufficiale del Coro.
In questo clima di attenzione curiosa un po’ pettegola, Trento accoglie l’annuncio dei quattro concerti d’esordio del Coro del Concilio, presentato dalla stampa come l’unione dei cori parrocchiali di Santa Maria Maggiore e di San Pietro e di 120 studenti delle scuole cittadine. Il nome fa riferimento non soltanto alla città che lo sta tenendo a battesimo, ma anche al fatto che la sua musica si collega intimamente agli indirizzi fissati per il canto sacro dal Concilio di Trento, vale a dire il rilancio della polifonia come sostegno, come esaltazione del gesto liturgico.
Ci si rende conto dell’impresa, così come deve averla vissuta e sofferta Feininger, leggendo un suo lungo messaggio alla città alla vigilia del primo concerto in cattedrale. “Un grazie al Principe Vescovo Carlo de Ferrari che ha permesso che io, non diocesano, potessi svolgere questa attività nella sua diocesi” e poi ai direttori didattici, ai professori e maestri che lo hanno aiutato. Ma in tutta sincerità dice anche che è stato difficile: “contavo su una disciplina maggiore, su una maggiore attenzione e su una maggiore diligenza. Ma siccome il risultato supera di gran lunga ogni ragionevole mia aspettativa va bene così e mi scuso per aver perso qualche volta la pazienza”.[39]
La Tu es Petrus viene eseguita alle 17,15 di domenica 18 giugno 1950 in un duomo affollatissimo. C’è padronanza dell’intera complessa architettura anche “nei punti più dinamici e travolgenti, mentre c’è da lavorare sulle singole linee melodiche per rendere più chiaro il gioco del tessuto polifonico”, così scrivono i giornali rendendo atto al grande musicologo di una “severa e raffinata interpretazione artistica in grado di porre l’ascoltatore in immediato contatto con la sostanza musicale dell’opera eseguita”. Nella maestosità del concerto ecco dunque un primo risultato significativo che mette d’accordo spettacolo e pensiero, l’evento moderno con la cultura che viene da lontano.
Sette giorni dopo, il 25 giugno, breve esecuzione del Credo al Buonconsiglio per l’inaugurazione di una mostra sul Concilio, cornice eccezionale alla presenza del presidente del Consiglio dei ministri Alcide Degasperi, del ministro all’istruzione Gonella, delle autorità politiche e istituzionali trentine. Le tensioni però riaffiorano proprio in quelle ore, vigilia del pontificale che l’arcivescovo celebrerà l’indomani mattina, giorno di San Vigilio. Il Popolo Trentino infatti esce con la notizia che il Coro non potrà cantare in quanto in organico “figurano alcuni elementi femminili”. Il problema rientra in virtù di un compromesso che consente al Coro di esibirsi, donne comprese, nel transetto settentrionale, quello che immette nella navata laterale che dà sulla porta dei leoni, dunque in una zona aperta ai fedeli.
La vigilia fu però burrascosa, con mons. Eccher che decide di non partecipare alle celebrazioni in duomo, difendendo così fino all’ultimo le posizioni ceciliane e lasciando ad altri la responsabilità di aggiustare in qualche modo le cose. Tant’è che quando si deve decidere come e chi dovrà sostenere le parti mobili del pontificale alternandole alle parti cantate del Coro di Feininger, si incrociano gli sguardi fra gli alti prelati ed è sufficiente un cenno del capo per far capire al Coro dei chierici della Cappella che non era proprio il caso di cantare. Ci pensarono tre di loro, dopo essersi messi d’accordo in un lampo, a sostenere dal presbiterio il dialogo canoro con il Coro del Concilio. Il Popolo Trentino si scuserà poi con i lettori perché “il lavoro affannoso non ci lascia il tempo di verificare sempre le notizie ed essere presenti”, entrando anche nel merito per chiarire che in fondo non tutto il male viene per nuocere perché “l’essere tornati alla prima decisione e l’aver consentito l’esecuzione della Tu es Petrus dinanzi a una folla strabocchevole quale era quella che assisteva al pontificale vigiliano, è motivo di alto compiacimento in quanto costituisce un meritato riconoscimento al Coro del Concilio e al suo dinamico maestro”. Grazie a loro, superate non lievi difficoltà, Trento ha vissuto “una autentica manifestazione d’arte. Da tempo non ne era più spettatrice”.[40]
Ultimo dei quattro concerti d’esordio il 29 sera alle 20,30 nella chiesa di San Pietro.
L’estate è già avviata. Chiuse le scuole, anche il Coro si prende una pausa. Nei mesi invernali aveva organizzato la sede nei locali della Juventus in via Roma. Il presidente di allora, Franco Grigolli, aveva inviato in primavera insieme a Lorenzo Feininger una circolare ai genitori lanciando l’idea di riunire i cantori in una associazione, mezzo sicuro per raggiungere tre obiettivi: dare ai ragazzi maggiore stabilità nella cultura del canto; promuovere e completare la formazione spirituale; offrire in un ambiente adeguato attività ricreative e di studio. La Juventus mette a disposizione alcune stanze, biblioteca e giochi. Ne viene anche un’ipotesi di programma musicale mirato con lezioni di pianoforte e di organo, di arricchimento personale per chi vuole leggere libri e giornali e di aiuto nello studio per chi ne avesse bisogno.[41] Con queste ambizioni l’Associazione muove i primi passi, ma Feininger precisa subito alle famiglie che non è sua intenzione “distogliere il figlio da associazioni alle quali già forse appartiene”. Infine l’invito a incontrare i genitori. La sede è aperta a fine giornata dalle 18 alle 19 tutti i giorni feriali, nei festivi dalle 10.30 alle 12 e dalle 17.30 alle 19.
Adesso però è tempo di vacanza e ci si ferma, ma solo per poco. Con una buona verifica alle spalle (i primi quattro concerti e il tifo della città) si può pensare ad organizzare l’immediato futuro: un campeggio estivo per rinforzare l’idea del gruppo, poi la ripresa delle prove con la riapertura dell’anno scolastico e quindi i concerti di Roma: il Papa, le registrazioni di “Radio Vaticana”, la consacrazione moderna di Orazio Benevoli nella sua terra.
L’1 agosto 1950 esce il primo numero di Voci Bianche, organo del Coro del Concilio. È un giornale tirato in ciclostile, scritto a macchina da don Lorenzo, due pagine con due colonne di testo, testata azzurra. Viene spedito ad ogni cantore con un francobollo da 5 lire. Voci bianche, una sorta di parola d’ordine di amicizia basata su cose belle e bianche, voci anima sentimento, un titolo dietro il quale c’è la speranza che “le vostre voci siano anche l’espressione simbolica delle vostre anime e dei vostri cuori”. Si entra subito nel merito dei problemi con l’idea di una cassa comune da vuotare ogni mese depositando in banca i piccoli risparmi per sostenere le spese del campo estivo, organizzare gite e altre cose, senza dover fissare quote di partecipazione. Queste somme saranno integrate da un altro grande risparmio (da cento a mille lire secondo le possibilità di ogni cantore) che renderà possibile un viaggio in Austria e Germania con esibizioni a Salisburgo e Vienna, poi in piroscafo lungo il Danubio fino a Passau e ancora Ratisbona e Monaco. Il viaggio però non si farà così come progettato ma si trasformerà due anni dopo, nel novembre 1952, in una tournée a Essen e a Colonia con registrazioni radiofoniche e concerti.
Si raccontano sul giornalino anche le avventure della prima vacanza estiva vissuta dal 10 al 25 luglio in una baita di Maso Velon di Vermiglio, sul Noce, con viaggio da Trento dentro il cassone di un camion, l’armonium legato sul tetto della cabina. Vi partecipa una ventina di cantori. Due settimane di gioco, temporali, lunghe letture, messe al campo, prove di canto, lezioni di teoria, gite al Boai, al Tonale e al Vioz per salutare l’alba alle quattro del mattino, come ricorda Pippo Clementi, oggi missionario in Bolivia, a quei tempi contralto.[42]
Sono mesi di grande entusiasmo. Voci Bianche è un fermento di idee e di proposte. A tenere i collegamenti con i cantori che l’estate ha disperso fra mare e monti c’è Roberto Mattei, figlio del maestro Iginio, segretario del Coro e responsabile del notiziario. Da lui vengono i solleciti a partecipare alle spese di stampa con la quota di 150 lire e a lui tocca il compito arduo di tenere il bilancio attorno al quale prospera l’ambizioso progetto dell’Associazione. Dà pure una mano agli studenti in difficoltà.
La base di tutto è naturalmente il canto e la condizione prima è avere una buona voce. Senza questo requisito non si entra, ma è anche vero che senza impegno, costanza e serietà la buona voce non serve a nulla. Sono richieste puntualità, attenzione, disciplina durante le lezioni e le prove. Stringersi tutti attorno a quest’unica idea vuol dire anche diventare soci, acquistando diritti attraverso uno statuto ma sottoscrivendo doveri, con la solenne promessa di fare causa comune. Chi non aderisce si esclude da sé, perché mai ricorrere a pesanti sanzioni o espulsioni? Don Lorenzo sostiene l’importanza di una scuola di autodisciplina, del senso di responsabilità, una norma che non ha bisogno di essere scritta perché dovrebbe nascere sotto la pelle di ogni cantore.
L’Associazione si dividerà in quattro gruppi (i quattro cori) più un quinto formato da musicisti, vale a dire soci che vogliono imparare qualche strumento, il piano o l’organo. L’impegno è preciso: quattro prove in settimana, vacanze comprese. Come attività regolare concerti nelle feste di Santa Cecilia, patrona della polifonia sacra, il 22 novembre; di San Gregorio Magno, patrono del canto liturgico, il 12 marzo; di San Vigilio il 26 giugno e di San Pietro e Paolo il 29 giugno, più tutto quello che nasce dalle occasioni e dagli inviti. L’8 dicembre ci sarà il tesseramento dei nuovi cantori. Ogni anno un campo scuola obbligatorio per tutti e una tournée autunnale in Italia o all’estero. All’inizio dell’anno scolastico si proveranno nuovi cantori con selezione fra le quarte classi elementari e questa sarà l’unica possibilità di entrare nel Coro, dopo un breve corso di teoria e di esercizi vocali.
La partecipazione è gratuita, non c’è quota di ingresso; si prevedono aiuti di enti e di privati. Offerte vengono raccolte al termine dei concerti o presso le cartolerie Ambrosi in via Oriola e Benigni in via Belenzani. Una mano la dà anche la legatoria Martinello di piazzetta Anfiteatro, dove Feininger risolve i suoi problemi di editoria spicciola. I primi contributi sono serviti a rinnovare i locali della Juventus: nuovo impianto luce con tubi al neon, tinteggiatura, falegname, idraulico, poi l’acquisto di libri per la biblioteca. Duecentomila lire sono volate via così. Il primo giro di cassa è di tre milioni e mezzo. Ma non è finita, perché le tentazioni culturali superano i confini del canto. Si pensa già a una filodrammatica, a un gruppo filatelico, a gare sportive, si possono fare tante cose “se siamo una vera associazione”. Don Lorenzo infonde forza vitale, i suoi interessi sono il segno di una cultura aperta a tutte le sollecitazioni che cerca di trasmettere ai ragazzi, la passione per l’archeologia, l’amore per la montagna, l’alpinismo, la lettura. Indispensabile però è su tutto la disciplina mentale, la capacità di far fiorire le passioni.
Il 28 agosto del ’50 torna a casa, in America, da dove manca da tre anni, costretto dal medico a un lungo riposo dopo tante fatiche. “Ma le fatiche utili – scriverà ai cantori con una punta di rimprovero – non mi pesano, quelle inutili sì”.[43] La famiglia lo ha sempre seguito con una fitta corrispondenza. I fratelli Lux e Andreas, la madre Julia, il padre Lyonel conoscono passo dopo passo tutti i movimenti di Lorenzo, condividono speranze, sogni, difficoltà, le gioie quotidiane e le amarezze. Questi dialoghi a distanza offrono una chiara lettura della sua biografia umana e culturale. Invia decine di lettere e cartoline scritte in viaggio sulla nave o dalla casa del Massachussets, anche ai cantori con le indicazioni delle prove da fare e altri voli della sua inesauribile fantasia.
Ha lasciato a Trento 140 voci bianche affidate alle cure dei maestri Mattei e Martinello, al primo i contralti, al secondo i soprani. E annunciando la ripresa dell’attività il 2 novembre con il rientro dall’America, scrive: “Non dobbiamo lavorare per mesi e mesi, ma entriamo subito nel lavoro già fatto”. Mancano venti giorni alla tournée romana che si farà con la piena approvazione del Provveditore agli Studi. Don Lorenzo tranquillizza, non c’è nulla da temere “tanto più che siamo nel primo trimestre”. Così come non ci saranno problemi per le assistenti: “ne ho parlato e senz’altro ci possono stare, possiamo andare sicuri”.[44] Si fanno due prove a settimana per ogni coro (alle 17 alle Crispi e alle 20 all’oratorio di San Pietro) e due prove generali alle 20, mercoledì e sabato. Un mese a ritmi sostenuti perché il Coro del Concilio possa rappresentare a Roma l’evento musicale più importante dell’Anno Santo.
CAPITOLO II | ELOGIO DEL CANTO NATURALE
Il primo anno di vita, messe alle spalle le fortune di Roma, ha fatto affiorare le difficoltà di questo itinerario musicale tra le chiavi antiche del barocco, ma Feininger sa bene che, conclusa la lunga fase di avvio, si può fare meglio e di più. Sul primo numero di Vox Cantantium, marzo 1951, testata rosso mattone, un nuovo notiziario che si affianca a Voci Bianche e che nell’idea originale dovrebbe essere destinato solo ai cantori adulti, tenori e bassi, scrive:
Stiamo per ridare al mondo valori artistici che erano stati perduti e che nessun altro coro prima di noi, né facilmente dopo di noi o assieme a noi, sarebbe in grado di dare: siamo soli nel mondo al momento della partenza, quanto più allora, quando avremo raggiunto la vera perfezione.[45]
Il suo dialogo con i cantori è un dialogo tra persone responsabili e non tiene conto degli anni perché “una persona vale per quello che ha dentro e che riesce a dare, non conta l’età”. E ancora “avete promesso fedeltà al nostro progetto, non eravate costretti a fare questa promessa se non eravate d’accordo”. La disattenzione continua dei ragazzi lo costringe a cantare le loro parti per guidarli negli attacchi e nei passaggi più difficili. A lungo andare però diventa un lavoro massacrante: “avete ridotto la mia salute nel senso di resistenza fisica, non posso andare avanti così fino allo stremo”, scrive. Di questo passo “otterrete voi, miei amici, quello che i miei nemici non hanno potuto ottenere e cioè di farmi piantare lì tutto e di andarmene”. Cerca il colloquio con le famiglie: “i vostri genitori devono avere poca stima di voi se una vostra promessa vale così poco per loro: vengano da me o me ne diano comunicazione scritta in segno di reciproca stima tra loro e me”. Ma poco dopo ecco uno slancio di ottimismo perché “anche se è vero che quelli che hanno capito bene e che si mettono con impegno pieno rendendo al cento per cento sono una minoranza, è anche vero che una minoranza può trasformare tutta la massa”.[46]
Non è passato molto tempo da quando Feininger si è imbattuto in Benevoli senza aspettarsi granchè – confesserà poi – secondo l’idea che usciva dalle pagine di storia, quella di un Seicento musicale decadente nei testi sacri. E l’ambizione di correggere questo “gravissimo errore nato da un pregiudizio ciecamente tramandato da una generazione all’altra e passato da un’enciclopedia all’altra” alimenta il suo orizzonte culturale.[47]
Trento vive intanto momenti di buona musica. La sera complessi di nome sulle locandine della Filarmonica – il Quartetto di Torino, l’Ottetto di Verona – e mentre sulla scena cittadina si affaccia il pianista Bruno Mezzana, tra i migliori del Busoni, la Società orchestrale trentina del maestro Guido Arnoldi fa esordire una giovane violinista, la bravissima Margit Spirk. C’è un desiderio di fare cultura che trova sfogo anche in luoghi meno ufficiali, come il Caminetto della Galleria d’arte che si accompagna alle istituzioni di quegli anni, la Pro Cultura, il Cineforum, il Circolo culturale Bronzetti, il Club Armonia ai quali la città di Trento – assessore alla cultura Aldo Ducati – guarda con attenzione, così come al Liceo musicale in attesa di sistemazione. Ed è ancora Renato Lunelli a ricordare la nascita del Coro del Concilio come l’avvenimento musicale più singolare dell’anno, quasi un cercare altri argini al fiume della coralità trentina dopo che “la popolarità raggiunta dal Coro della Sat e dal suo gergo corale diede origine a troppe imitazioni”.[48] Feininger – come si legge sul giornalino della divisione culturale dell’Ambasciata italiana di New York – era arrivato a Trento, gli era piaciuta la città con la sua atmosfera montana (così incline al canto corale) e aveva deciso di rimanerci. Nell’affrontare lo studio della musica policorale barocca il Coro del Concilio si proponeva inoltre come “graduale evoluzione delle identità musicali del Concilio di Trento”.
Con questo lasciapassare si entra nel secondo anno di vita non senza una correzione di rotta. I primi mesi del 1951 segnano infatti una drastica riduzione dell’organico. A Roma – ancora una volta meta importante – si ritornerà in quaranta, niente in confronto alla legione di un anno prima dentro la coreografia altisonante del Giubileo. Molti, venuta meno l’emozione dell’Anno Santo, hanno abbandonato l’avventura corale; per altri l’impatto musicale si è dimostrato superiore alle forze; per altri ancora, musicalmente troppo deboli o rivelatisi in seguito poco affidabili nel rispetto degli impegni, non c’è stata la conferma. Viene affrontata una nuova Messa – la Benevola, detta anche Maria Prodigio Celeste, – senza aiuti esterni, dal momento che i ragazzi, quelli rimasti, sono più maturi e stanno diventando più abili, imparano a battersi il tempo, a contare le battute e a trovare la nota giusta.[49]
Il processo di affrancamento dalle guide femminili avviene gradualmente. Aprono la strada i contralti primi decidendo con grande coraggio, in piena autonomia, di poter continuare da soli. Il direttore aggiusta il quadro generale spostando una assistente dai contralti terzi, anche loro in buon progresso, ai contralti secondi ancora in leggera difficoltà. Ma sono differenze minime. La velocità di apprendimento stupisce tutti, dentro il Coro e fuori, alimentando una certa gelosia fra gli addetti ai lavori della coralità sacra trentina.
La facilità con la quale i ragazzi del Coro del Concilio riescono a muoversi nel groviglio barocco di note sta infatti diventando qualcosa di troppo grande. Affrontano quasi per gioco cose incredibili, pur tra mille distrazioni e interminabili richiami alla disciplina. Eseguono una musica complessa con grande abilità e cresce sempre più la convinzione che la voce naturale sia effettivamente lo strumento più efficace per riproporre nei secoli moderni questo tipo di musica. Cantano parole in latino che riescono a sillabare dentro intervalli impegnativi, costruiti su crome e semiminime, un pro-pter ma-gnam oppure un su-sci-pe / de-pre-ca-ti-o-nem / no-stram e non è facile combinare note e parole, ciascuno sempre concentrato su se stesso perché il compagno vicino non canta le stesse note e non sempre pronuncia le stesse parole nel contrappunto della partitura.
Il latino entra così nella vita di ragazzi delle elementari, quasi un amico di avventure attraverso le immagini evocate dal dispersit superbos del Magnificat o nello stupore di formule di vago sapore familiare come lo scabellum peduum tuorum del Dixit Dominus (ma salta fuori anche uno sconquassabit capita che, nell’ignoranza della lingua, sembrava molto efficace).
Scrivendo alla famiglia, don Lorenzo osserverà che “Cantare il nostro repertorio con la qualità perfezionata del ‘tono corale’ [così come voluto dalla tradizione romana con uscite di voce vigorosa, quasi atletica, una sorta di potenza sonora storicamente nata forse dall’esigenza di farsi sentire nelle grandi chiese, nelle basiliche] avrebbe reso il nostro canto poco pregnante; così come interpretarlo con una ‘espressione vocale’ [intendendo forse con ciò lo stile della tradizione tedesca, più pulito, meno dinamico, apparentemente piatto] l’avrebbe immediatamente ucciso”. Ed è proprio su questo aspetto che si riaccende di continuo la polemica musicale con chi a Trento contesta lo stile del Coro del Concilio liquidandolo come “mancanza di esercizio vocale”. Un esercizio che invece si è sempre fatto attraverso i corsi di teoria, le prove di emissione della voce e di dosaggio dei piano e dei forte alle quali era sottoposto ogni cantore prima di entrare in organico. E l’insegnamento si spinge ben più in là. Il Gloria della Tu es Petrus, ricorda Feininger, si apre con il pieno festoso delle sedici voci. Nella Benevola invece le prime battute “con entrate e uscite successive delle singole parti esprimono la pace ed è solo nell’unirsi della buona volontà di tutti gli uomini che si uniscono anche le voci, in meravigliosa armonia, alle parole bonae voluntatis”.
C’è una differenza di impianto, di concezione fra i due lavori. La Tu es Petrus nasce da un mottetto di Palestrina (chiamato appunto Tu es Petrus) sul quale Benevoli costruisce la Messa. La “«Benevola» nelle forme e nello stile austero classico – scrive Lunelli – è tutta di invenzione libera ed esprime lo stile barocco maturo”. Dunque bisogna cantare cercando anche di capire, perché le note possano andare d’accordo con le parole.
Il Coro vive momenti di fibrillazione nel febbraio del ’51, quando il direttore prende ancora una volta la strada per Roma, dove spera di trovare la soluzione alle difficoltà della sua vita trentina. Saluta i ragazzi dalle pagine del giornalino: “Devo partire di nuovo giovedì notte dopo la prova del 1° coro con la speranza di poter ancora ritornare e vi do vacanza completa per una settimana” e chiede conferma alla sua vera, unica forza di sopravvivenza: “datemi la consolazione, prima della mia partenza, di aver capito la gravità del pericolo in cui ci troviamo tutti, stando veramente in tutto alla promessa fatta: attenzione e buona volontà nel nostro lavoro”.[50]
E ancora una volta ritorna con la certezza di poter contare su chi crede nel suo lavoro, a Trento l’arcivescovo Carlo de Ferrari e a Roma il cardinale Micara, che gli concede di vivere fuori diocesi la sua vita musicale. Dell’Arcivescovo scrive in una lettera che ascolta “spessissimo” dalla sua finestra le prove del Coro che si svolgono nella palestra delle Crispi, di fronte alla Curia. E una sera “fece cadere giù una copia del Bollettino della Federazione internazionale dei Piccoli Cantori perché mi venisse consegnata. Io chiesi se si sarebbe opposto alla nostra adesione a tale Federazione e lui rispose che noi potevamo fare tranquillamente ciò che volevamo fino a quando ci fossimo tenuti lontani da terreni pericolosi”.[51]
Ogni passo in avanti sulla strada del chiarimento, che non ci sarà mai fino in fondo, rappresenta per don Lorenzo una vittoria della ragione che si traduce in una spinta a rilanciare i progetti, a rinnovare le idee. E sempre ricomincia la salita, si ritrova l’entusiasmo e la convinzione che non bisogna cedere mai. Il lavoro da fare è enorme perché è rimasto indietro nei secoli. Alla continua ricerca di motivazioni nuove, Feininger introduce nella vita del Coro un’organizzazione capillare: una gara mensile fra i quattro cori per premiare impegno, rapidità di apprendimento, puntualità e frequenza alle prove, e la nomina di capigruppo per coordinare il tutto. La parte più difficile della Benevola, una Messa scelta “quasi a casaccio – confesserà – fra le mille pagine di Benevoli”,[52] ma che gli rivelerà in seguito tutto il suo valore “nelle forme e nei mezzi esuberanti dello stile barocco maturo”, è il Kyrie, che “il 4° coro ha imparato molto bene passando in vetta alla graduatoria (ma il 1° non è indietro di molto, mentre il 3° ha attraversato un momento difficile)”. Le prove si fanno sempre alle Crispi, sia di voci singole che di coro, le generali al palazzo del Diavolo in via Manci. Siamo nel vivo della stagione, assenze non si possono più tollerare se non in casi eccezionali. “Chi è assente ingiustificato per un’intera settimana va cancellato”, è questo l’augurio di Buona Pasqua.
Si comincia a pensare alla registrazione delle prove perché è importante riascoltare quello che si è fatto. Nasce un nuovo rapporto fra il cantore e lo spartito, un rapporto vissuto fino a quel momento in modo individuale, nel senso che ognuno sente la propria voce, ma non sempre sa cosa cantano gli altri. Pur con tutte le imperfezioni dell’ambiente in cui si registra, questi primi esperimenti danno l’idea di un Coro che sta crescendo perché prende coscienza delle incertezze, delle intonazioni sbagliate, delle ‘stonatine’, come le chiama il direttore.
A sei mesi dall’ultima uscita in pubblico (Santa Maria Maggiore, 8 dicembre 1950, nella stessa giornata c’era stato il tesseramento), il Coro si presenta il 6 giugno del ’51 con un concerto serale all’aperto nel cortile interno delle Crispi. La stampa trentina è attenta alle sue vicende ed esprime profondo disappunto per il fatto che la prima esecuzione assoluta di una musica riproposta dopo centinaia di anni non sia riuscita a superare il ristretto ambito cittadino. Eppure è stata una fatica improba prepararsi per una simile esecuzione e probabilmente per questo, o almeno anche per questo, ci si può spiegare la scarsa diffusione che le opere di Orazio Benevoli hanno avuto nei secoli. Trento “in verità senza grandi meriti si trova indirettamente a contribuire a un avvenimento artistico di portata eccezionale”. Lo scrive l’Adige che non è tenero nemmeno nei confronti del Coro. Molte “le scorie che contaminano una esecuzione perfetta”. Però non si discute la grandiosità del lavoro. Suggestive le note del Gloria e ancora più dell’Agnus Dei, il brano “armonicamente più raffinato dell’intera Messa”.[53]
Si fa sentire intanto anche la necessità di affidare l’attività complessiva a una Direzione che avrà il compito di decidere e deliberare sia sulla parte musicale che su quella economica. È del 22 marzo 1951 la riunione di insediamento alle 14.30 nella sede della Juventus. Di sicuro vi fanno parte Renato Lunelli, Rodolfo Piazza (padre di due fratelli, Gianfranco e Alberto detto Bébe, entrambi legati alla nascita del Coro), Roberto Mattei che tiene la relazione organizzativa, Luigi Trotter che presenta il resoconto amministrativo, mentre Lorenzo Feininger illustra il progetto artistico.[54]
Un momento di grande crescita diventerà il campeggio estivo di Pejo. Si concentrano forze, attenzione, entusiasmo e si utilizza al massimo il tempo a disposizione. In due settimane il Coro impara un salmo a sedici voci: il Dixit Dominus detto bello carioso – un sottotitolo enigmatico al quale non si riesce a dare un preciso significato, ma che forse sta ad indicare uno stile antico, consumato dall’età – e in cinque giorni mette insieme le dodici voci bianche di un altro Dixit a 24. È un prodigio, riconosce don Lorenzo, che nessun coro di ragazzi in tutto il mondo può ripetere. Prima provano le singole voci (soprani e contralti), poi insieme soprani e contralti del medesimo coro, quindi incrocio fra due cori (1° e 2°; 3° e 4°; poi 1° e 3°, 2° e 4°, 1° e 4°, 2° e 3°). Dopo una settimana il lavoro è stato tale che possono cantare insieme le otto voci bianche. Due giorni di prove generali e al terzo si canta “a cronometro”, vale a dire senza interruzioni. Sono sei minuti di un canto meraviglioso, sei minuti di paradiso, ama ricordare Feininger.
Accantonato il Dixit a 16, si pone mano al Dixit a 24 voci, sei cori. L’ingranaggio funziona così bene che al quinto giorno il salmo, con il pieno delle dodici voci bianche, viene eseguito nella chiesa di Pejo in una prova generale pubblica. E al parroco, che ha ospitato il Coro gratuitamente (i più piccoli in due camerate della canonica, i più grandi nel teatro comunale) non si può negare il favore di un altro concerto in chiesa, domenica 12 agosto, con il paese pieno di villeggianti. Così in una sola giornata, il sabato, si ripassa la Benevola e si fanno arrivare tenori e bassi da Trento, anche se non tutti hanno tempo disponibile da dedicare al Coro nel fine settimana.
Quello dei cantori adulti è un problema particolare all’interno del problema generale. I tenori e i bassi non sono più ragazzi, ma devono già fare i conti col mondo del lavoro e nel programmare concerti e viaggi bisogna tenere in considerazione questa presenza precaria. E poi “gli adulti – si abbandonava in una lettera don Lorenzo – non hanno alcuna preparazione musicale, non hanno mai studiato, traspare subito il loro disagio”.[55] Fanno parte di altri cori, cantano altra musica, non è facile per nessuno abbracciare dalla sera alla mattina un nuovo stile. Ma non è vero per tutti, perché c’è anche chi unisce all’esperienza maturata in altri cori una cultura personale o particolari capacità di apprendimento. Così Toniolli, Sembenotti, Paoli, così Gianni Marchetti del Coro di Santa Maria che andrà poi nel Coro di Mingozzi, Ernesto Gezzele di San Pietro, che sarà l’unico della vecchia guardia a vivere gli ultimi giorni del Coro del Concilio (di San Pietro sono anche Roberto Martinello e Benedetti); così Romano Arnoldi, un basso che esce dal mondo studentesco, figlio di Guido Arnoldi musicista e direttore del Conservatorio di Trento, Gianfranco Scardigli, Renato Gaddo, Lanfranco Dorigatti, i fratelli Trenti e altri ancora. È tuttavia un problema dei primi anni, perché poi il rinnovamento nelle voci adulte avverrà per passaggi interni, i soprani diventeranno tenori, i contralti diventeranno bassi (più o meno funzionava così) e allora, superato l’ostacolo musicale, resterà aperta soltanto la difficoltà di far quadrare lavoro, tempo libero e impegno corale.
La vita del campeggio non cammina con i ritmi tranquilli dell’estate, perché c’è un programma di studio da rispettare e insieme un programma di quotidianità. Feininger è un prete, ma non è un curatore d’anime di vecchia tradizione, la sua impostazione mentale gli fa dire che contano anche le piccole cose, che anzi sulle piccole conquiste cresce la natura dell’uomo e fioriscono tutti i suoi sogni. L’unico vero inquadramento che conta è quello dettato dalla mente, dall’intelligenza, dal cervello, il rispetto delle idee, della libertà altrui, del rapporto con il prossimo. Essere responsabili e pienamente consapevoli di tutto quello che si fa e che si affronta è già un punto di partenza per i grandi traguardi. Organizza solo a grandi linee le giornate di comunità, dentro le quali ognuno ritaglia spazi personali. La Messa non è obbligatoria, dice, ma chi ci va ci vada sul serio; il pisolino del pomeriggio non è obbligatorio, ma chi lo fa ha diritto di farlo.[56] Un anno dopo avvertirà invece, dalle pagine del giornalino, che la Messa è un obbligo da non discutere. Ci si lava alla fontana del paese, le camerate sono autogestite, si porta tutto, dal materasso realizzato cucendo insieme due lenzuola – la paglia si trova sul posto – alle candele, dal quaderno da musica alla carta igienica al sapone alla gavetta tipo militare.
Don Lorenzo passa le giornate a fare prove, a trascrivere musica e preparare nuovi spartiti che seguono un procedimento meticoloso, prima la scrittura a china su carta lucida elaborata voce per voce con fregi, lettere capitali a caratteri antichi e richiami grafici da pergamene o da codici, poi la riproduzione fotostatica e infine la tiratura in ciclostile. Sullo spartito scrive di tutto. Al termine di un brano le pause e gli intervalli prolungati sono riempiti con un “fate silenzio” per i ragazzi e un “non fumate” per gli adulti. Il tutto scritto con bella calligrafia, perché ogni cosa deve avere uno stile. E così abbellisce anche i giornalini, le lettere, le circolari disegnando pecore, prati, alberi e strade di montagna per annunciare i campeggi estivi, cattedrali gotiche per programmare i viaggi. Ai ragazzi, smaltiti gli impegni corali, è data libertà assoluta pur dentro un impianto rigido di orari e di disciplina: alla mensa – pranzo e cena – ci si presenta con ordine, in fila indiana, l’inizio dei pasti è preceduto da un minuto di silenzio, poi chi deve studiare studia, chi vuole andare per boschi va per boschi e a fine giornata lezione di cultura musicale con l’ascolto di musica classica su dischi a 33 giri e qualche riflessione guidata sul vissuto della giornata.
La fine dell’estate riporta tutti a casa. Si ricomincia con un programma fitto: una settimana di prove per il Dixit Dominus a 16 voci, un’altra per il Dixit a 24, la terza per ripassare la Benevola destinata il 14 ottobre alla scena di Roma in un concerto nella sala Borromini di Santa Maria in Vallicella in corso Vittorio Emanuele. Il pubblico romano gradisce quel nonsoché di primitivo e di tagliente che questo coro venuto da Trento esprime andando a riproporre, proprio nella terra d’origine, una musica scritta per la Cappella papale da un romano e dunque destinata forse ad una lettura di altro tipo, raffinata piuttosto che vigorosa, delicata piuttosto che naturale. C’è da dire che anche la ricerca dei luoghi da parte di Feininger rivela intenti di cultura, non si sa fino a che punto compresi dai ragazzi; così è per questa sala Borromini, all’epoca fra le più ricercate e raffinate sale da concerto di Roma, oggi in restauro, dove storicamente si sviluppano le forme musicali della laude e dell’oratorio legate alla Congregazione di San Filippo Neri, che qui aveva la sede principale; così sarà in altra occasione per il monastero dei Quattro Coronati, oltre il Colosseo, quasi una lezione di storia dentro l’arte e l’architettura del tempo.
Con l’entusiasmo alle stelle, perché ormai il Coro ha tracciato una propria strada districandosi abilmente fra tutti gli ostacoli, procede la costruzione di questo fantastico castello polifonico. Ma i ragazzi sono pur sempre ragazzi e capita che le situazioni possano anche precipitare. Ciò che fino a ieri era certezza, da un momento all’altro può finire in un mare di dubbi. Qualche cantore, magari proprio fra i più affidabili, abbandona il campo, chi va in collegio a recuperare un anno scolastico, chi non ce la fa più con le note alte. C’è poi la questione finanziaria, ci sono ritardi nel pagamento delle quote (i vecchi risparmi dei primi tempi trasformati poi in quote di partecipazione ai campeggi), si sollecita, ognuno almeno dia quello che può, anche a rate, e se proprio non ce la fa lo dica che qualcuno farà un sacrificio in più. Ma questa è soltanto la premessa di nuovi sviluppi. Don Lorenzo, al quale nell’emergenza non mancano risorse di famiglia per portare avanti la ciclopica avventura, inventa una sorta di professionismo, accreditando ai cantori 100 lire per la presenza ad ogni prova (ma scalando anche dal credito accumulato le 100 lire per ogni assenza) cosicché ognuno, retribuito per il proprio impegno, si sarebbe guadagnato la tournée all’estero o il viaggio in Italia.
In tre anni – siamo nel 1952 – il Coro è mutato profondamente e a tenerlo in corsa c’è sempre quella spinta inesauribile che Feininger riesce a trasmettere, la grande idea di far diventare questo secolo protagonista, anche attraverso il Coro del Concilio, di una scoperta musicale uscita dal fondo di un archivio storico remoto. E insieme – come ricorda Danilo Curti Feininger – di realizzare a Trento un moderno centro di musicologia con l’archiviazione, la microfilmatura e la schedatura dell’intero patrimonio sacro delle biblioteche europee ed extraeuropee e con la trascrizione e la pubblicazione di tutto il materiale possibile, a cominciare dai Codici trentini fino alle polifonie dei maggiori autori del Seicento e del Settecento.[57]
Il nuovo anno si apre con un leggero potenziamento dell’organico, 54 cantori che affronteranno la prima tournée all’estero, meta finale Essen che sta celebrando nell’Alta Germania i 1100 anni di vita. Feininger non ha mai allentato i rapporti con il mondo tedesco. Ha tenuto corrispondenza con padre Erwin M. Roehr, maestro di cappella del convento dei Domenicani di Berlino, coltiva conoscenze importanti con i centri di musica sacra del Nord, è in relazione con un prete olandese che dirige una stazione radio a Hilversum. Ed è proprio Erwin Roehr che, rientrato in Germania dopo aver seguito a Roma i concerti del Giubileo, raccomanda al comitato organizzatore delle giornate di Essen di invitare il Coro di Trento.
La tournée tedesca – un giorno e una notte in corriera, un solo autista sempre alla guida, Carmellini della “Trento-Rovereto-Riva”, qualche voce roca per l’aria che entra dai finestrini, tanta stanchezza ma altrettanto vigore – diventa un’importante prova di maturità artistica, di capacità di esecuzione di fronte a un uditorio apparentemente inesistente ma rigoroso, che si nasconde dietro i microfoni di una sala di registrazione.
Doppia esibizione nel duomo di Essen: la mattina del 2 novembre durante la Messa, con ripresa dell’intera funzione religiosa da parte della stazione radio olandese di Hilversum, e nel pomeriggio alle 5 replica in concerto davanti a un pubblico “all’inizio non conquistato”, al quale il delegato diocesano per la musica sacra presenta il Coro di Trento come la riproduzione di un organo antico italiano per gli effetti sonori espressi dalla ricchezza timbrica delle voci naturali. La spiegazione è molto utile per stemperare la rigida, fredda attenzione dei presenti che alla fine applaudono a lungo, convertiti a questo canto esuberante, libero, così poco tedesco.
Il giorno dopo seduta di incisione nella chiesa del convento di Knechtsteden, cinque ore a provare e riprovare prima della definitiva registrazione dell’intero programma da parte di “Radio Colonia”. Ultima esibizione a Limburg, sulla via del ritorno, dove nella gotica cattedrale si canta a memoria, senza spartito, un Magnificat a otto voci, segno che il livello musicale era andato crescendo. A dimostrarlo sta anche un episodio piccolo ma significativo: il Coro aveva portato in trionfo qualche tempo prima un suo cantore, Salvatore Strippoli, contralto quarto rimasto a cantare da solo (e con successo) nel suo gruppo, dal momento che i compagni per malattie o ritardi non si erano presentati alla prova generale.
La ferrea impostazione didattica del direttore porta ad una naturale selezione e così, dopo il boom numerico iniziale, si arriva a un organico più snello e come tale di più facile gestione. Spesso però succede che un gruppo di soprani o di contralti dipenda completamente dalla bravura di un unico cantore, se manca quello crolla tutto. E allora diventa importante, fondamentale, verificare che ognuno sia in grado di andare avanti per conto suo. Don Lorenzo inventa i piccoli saggi: all’interno di una prova collettiva isola ad un certo punto un soprano o un contralto e lo fa cantare nel pieno delle altre voci. L’obiettivo ultimo è quello di poter cantare a prima vista qualsiasi cosa. Perciò l’ingresso di nuove forze è regolato da un iter molto rigido: lezioni di teoria, capacità di intonazione, indipendenza nella scansione del tempo. Quindi esame finale che deve accertare la sicurezza nel sostenere la parte indipendentemente dagli altri.
Proprio in vista delle registrazioni in Germania si era lavorato in primavera su questo nuovo modello didattico. In maggio, più o meno alla scadenza dell’anno scolastico, il Coro aveva sostenuto i primi saggi. Don Lorenzo si era fatto affiancare nella commissione d’esame da cantori della formazione originaria: Gianfranco Piazza, Sergio Mazzucato, i fratelli Cembran – Piergiuliano e Antonio – una specie di squadra di “pronto soccorso” nella quale erano pronti ad entrare anche Giuliano Cortelletti, Castelluzzo, Piazzetta, Gino Pedrotti, Mazzalai, Passerini “grande”; e poi Marco Bronzini, che fa lezione ai più giovani, Sergio Paoli, Sisinio Toniolli e Salvatore Strippoli, sempre disposti a passare, nell’emergenza, da un coro all’altro e da un gruppo all’altro per dare una mano. Un secondo ingranaggio organizzativo era definito Consiglio dei Quattro (un rappresentante per ogni coro, Mazzucato, Piazza, Piergiuliano Cembran, Gino Pedrotti), un misto di impegno artistico e sindacale, portavoce di esigenze singole e di necessità di gruppo (anche se questo ruolo dava un certo fastidio a Feininger, come tutto ciò che poteva mettere in discussione le sue idee, i suoi programmi, i suoi metodi di lavoro, la sua autorità, che si manifestava anche nel semplice fatto di farsi dare del lei da quelli cui lui dava del tu). Grazie a consultazioni rapide si guadagnava tempo nella preparazione dei programmi ed erano maggiori le garanzie di portare a termine una prova.
Costante è il collegamento con le famiglie, alle quali Lorenzo Feininger non ha mai voluto sottrarre il controllo dei figli. Chiedeva un continuo dialogo, presenza alle assemblee nelle quali riteneva importante ascoltare anche il pensiero dei genitori, perché questo nuovo tassello artistico di grande significato culturale, che era entrato nella vita dei ragazzi, potesse armonizzarsi con il resto della giornata senza nulla togliere ad altre abitudini, ad altri comportamenti, ai ritmi familiari. La risposta non mancò mai e nemmeno la presenza, mamma Pedrotti e la signora Cappitella a tenere la cucina nei campeggi, Vian padre a sostenere l’organizzazione nei campi scuola, Renzo Tafner ad affiancare la Direzione nel viaggio a Essen e due insegnanti per eventuali emergenze, ultima coda delle guide femminili che nei primi due anni avevano seguito da vicino soprani e contralti.
Il 1952 è un anno di intenso fervore, il Coro è abbastanza giovane da poter essere plasmato giorno dopo giorno nei contorni e nei contenuti, e abbastanza vecchio – con due anni di vita movimentata alle spalle – da manifestare errori e debolezze. Non si tratta soltanto di cantare una Messa, di riportare in chiesa un salmo, in cima a tutto c’è un ideale di vita immersa nell’arte e nel pensiero, una sorta di ecumenismo delle idee che spazia nei secoli e sorvola i guai dell’umanità che anche la musica può contribuire a correggere. Feininger lavora con pazienza, ma non troppa. Offre ai ragazzi possibilità impensate di arricchire la propria cultura musicale, e non solo quella, o di farsene una dal nulla. Basta impegnarsi. Ci vuole poco – dice – a suonare il pianoforte. Il suo Rondò alla turca è sempre lì a dare piacere e allegria e così qualcuno che non ha mai visto prima una tastiera prova a metterci le mani, premessa a seguire in futuro altre strade musicali: così Gianfranco Piazza, che continuerà a suonare Mozart e Bach o Ivan Soraruff, contralto terzo con una permanenza nel Coro di oltre dieci anni prima di entrare come vibrafonista nella New Swing Orchestra di Pergine, una band che ha fatto ottimo jazz negli anni Sessanta con Attilio Donadio e Luciano Fumai; così Gianni Tafner che, entrato nel Coro soprano terzo e uscito pianista, fonda I Vampiri (musica leggera e jazz) assieme allo stesso Soraruff e a Giancarlo Marchi e suonerà poi anche con Armando Franceschini, futuro direttore del Conservatorio. E ancora Gianni Falci, un soprano che entrerà nel Gruppo Neruda del poeta-scrittore Renzo Francescotti, anche lui corista assieme al fratello Renato, e poi Gianni Patelli, che farà dieci anni di crociere con la Sweet Sound Band, un sestetto che lo vede chitarrista e cantante. Quindi Alberto Albertini, un soprano tra i veterani che passerà al Coro Dolomiti portandosi dietro Ennio Degasperi, Salvatore Licitra, Giovanni Lorenzi (una strada, quella dei cori di montagna, aperta da Marco Bronzini che per qualche anno canterà sia nel Coro del Concilio che nel Coro della SAT). La vena didattica di Feininger è tale che durante un campo scuola al mare metterà in programma un concerto finale per i turisti dell’albergo che ospitava il Coro, la sonata in si minore per Flöte und Klavier di Bach. Lui avrebbe suonato il flauto, che qualcuno imparasse la parte del piano senza discutere. E così prove su prove, sacrificando bagni e partite di calcio sulla sabbia, il duo riscosse molti applausi, pur fra qualche errore del pianista, in una fresca sera di luglio a Caorle.
Erano piccole conquiste, esempi di un percorso possibile, che Danilo Curti affronterà molto più a fondo. Comincia la sua collaborazione correggendo bozze, tenendo la corrispondenza e facendo lavori di segreteria, prima di venir contagiato dalla passione per la ricerca delle origini del canto sacro, discepolo di Lorenzo Feininger che ne promuoverà poi l’adozione facendogli assumere anche il suo cognome.
Il resto dell’anno era volato via fra concerti con il vecchio repertorio e prove del nuovo. Il permesso di cantare in cattedrale a Trento la Messa Tira Corda, negato un’altra volta dal Capitolo del Duomo, nel riaffiorare della vecchia polemica, si era però rivelato provvidenziale perché aveva dato tempo al Coro di rifinirne la preparazione.[58] Le prove di questo terzo grande lavoro a sedici voci affrontato in tre anni erano cominciate il 29 aprile. Debutto nel campeggio estivo di Fierozzo, “un’esecuzione bruttina – aveva riconosciuto don Lorenzo – con molti errori ma davanti a villeggianti deliziati”. Sempre a Fierozzo era riaffiorata la vecchia passione per Du Fay, ma dopo poche prove la Messa L’Homme Armè era stata abbandonata, perché troppi soprani si erano trovati in difficoltà sulle note alte.
Il primo dei 13 concerti del ’52 si era tenuto in duomo il 27 aprile pomeriggio, ancora la Benevola e il salmo Laudate pueri Dominum. Il concerto rientrava in un fitto programma organizzato per ricordare i 25 anni di vita della Scuola diocesana di musica sacra di Celestino Eccher e il ricavato (7988 lire) sarebbe servito a dotare il Coro di una divisa in vista dell’impegnativa tournée tedesca, divisa che in un primo momento sembrava dovesse portare i colori di Trento. Si uniformerà invece alla cotta bianca dell’Associazione mondiale dei Pueri Cantores, alla quale il Coro avrebbe aderito il 27 marzo 1954.
Erano seguiti concerti al Buonconsiglio in occasione del Congresso ceciliano triveneto, nelle chiese dei Cappuccini e dei Francescani, nella parrocchiale di Gardolo, a palazzo Galasso, alla Filarmonica (dove nell’intervallo Feininger spiega ad una sala gremita il perché di questo modo naturale di cantare il Benevoli con “un’emissione di voce che toglie leziosaggini all’esecuzione e rende più chiaro l’imponente tessuto polifonico della musica”) e al teatro Sociale per la chiusura della Settimana della famiglia. Con l’ultima esibizione dell’anno, il 25 dicembre, era stata inaugurata a Trento la nuova chiesa di Cristo Re. Il concerto aveva avuto un apripista formidabile in don Livio Botteri che nel discorso ufficiale aveva unito e interpretato l’evento liturgico e la cultura del canto antico. Quattro giorni dopo, lunedì 29 dicembre, erano cominciate le prove di registrazione del repertorio. Su Life, che tirava all’epoca tre milioni di copie, era uscita intanto la foto di una prova del Coro con un servizio sull’attività di Feininger a Trento, mentre fra i cultori degli studi storici musicali il suo nome correva veloce grazie anche allo spazio che i lavori sul Seicento si stavano conquistando in Germania nella voluminosa enciclopedia musicale del Blume.
Il 1953 annuncia un futuro di larghe prospettive. Contatti importanti con gli Stati Uniti, dove don Lorenzo trascorre ogni anno lunghi periodi e da dove arrivano a Trento musicologi di fama per farsi un’idea precisa del Coro del Concilio e dei tesori musicali barocchi; prove di registrazione in vista di un primo disco; trasmissione televisiva a Milano, nel periodo di Natale, e grande tournée di due mesi in America. Qualche cosa si avvererà, altro resterà soltanto un’utopia.
Affiora con forza la necessità di seguire altre strade per garantire continuità al lavoro anche nelle lunghe assenze americane del maestro. Bisogna ridisegnare gli equilibri interni, spostare – se serve – i vecchi cantori da un coro all’altro, guardare a nuove possibilità di apprendimento, più rapido, più sicuro. Don Lorenzo è convinto che alcuni cantori dell’organico originario abbiano ormai un bagaglio tale di esperienza da poterlo sostituire. Si fanno prove di singole voci, prove di coro e qualcuna anche generale, seguendo le indicazioni che invia dall’America. Però bisogna concentrarsi su poche cose, poche ma sicure. Don Lorenzo programma il ’53 con un occhio particolare alla registrazione del repertorio, la chiave di volta di tutta l’esistenza artistica del Coro. I concerti – soltanto sette nel corso dell’anno – stanno diventando ormai momenti di perfezionamento per un futuro disco. Saremo perfetti – continua a ripetere – quando avremo imparato a cantare piano nei piano e forte se occorre, ma in un crescendo continuo e ben controllato. Il segreto sta tutto nel fare attenzione ai segni del direttore, basterebbe guardarlo quando dirige, in piedi, davanti al leggio, un’asticciola di legno fra le dita. Fissa la partitura da sotto gli occhiali, incrocia lo sguardo dei sedici gruppi, uno ad uno quando devono entrare, canticchia una parte, poi un’altra, alza il mento di lato nel gesto faticoso di chi proprio non ce la fa a raggiungere la nota alta, impossibile, dei soprani, tenta discese pericolose verso il fa dei bassi, sotto il rigo (raramente si va più giù) cercando con gesti disperati delle braccia di far rientrare nel vortice del ritmo qualche gruppo in ritardo. Ha una grande, incredibile costanza, ferma tutto, riparte, canta un pezzo da solo, lo fa ripetere da una voce, poi da due insieme, poi riprova con tutti, sopporta ogni distrazione, gli errori, il silenzio di chi non sa la parte, soltanto una cosa non tollera, che si rida e che si parli, urla: “Idioti!” e spezza la bacchetta sul leggio. Poi chiede scusa e riprende.
Si va in campeggio a Grauno, in val di Cembra, un paese perso nel verde, macchie di lamponi, sassaie da vipere. Anche i campi scuola registrano progressi nella vita del Coro. Due settimane nel fienile di Vermiglio, quattro nella canonica di Pejo, sei nelle scuole di Fierozzo. Ci si lava nelle fontane del paese, acqua gelida per il bucato e tutto il resto. A Grauno invece ci sono le docce per un soggiorno di otto settimane, partenza il 24 giugno – praticamente appena concluso l’anno scolastico – dal piazzale dietro l’Hotel Bristol, un’estate lunga per i 64 cantori che si daranno il cambio muovendosi fra attrezzature autonome, brande, materassi e cucina. C’è anche un assistente allo studio, Sergio Zanetti, più di un maestro, come più di un bagnino sarebbe poi stato Bruno Nardon, il Nano, nelle vacanze al mare.
Nel settembre del ’53 don Lorenzo annuncia l’acquisto di un sincronizzatore e di quattro microfoni, uno per coro. Il nastro verrà portato in America dove si realizzeranno i dischi. Poi il lancio con una serie di concerti davanti a un pubblico che questa musica non la può neanche immaginare. L’entusiasmo è alle stelle. Si fanno prove su prove nella chiesa di Cristo Re, nella palestra delle Crispi disturbata dal passaggio di auto e di moto, nella chiesa di San Marco. Il pezzo forte è la Messa Tira Corda, ma si cerca di salvare anche la Benevola finché c’è qualcuno che se la ricorda ancora.
La preparazione è meticolosa, una vera e propria scalata all’Everest, come la descrive don Lorenzo in un bozzetto nel quale rivela la sua profonda passione per la montagna (nata forse sul Vioz), che ha amato moltissimo e che ha vissuto in pieno spirito da autodidatta, pareti e nevai affrontati senza alcuna precauzione se non quella di affidarsi alla Divina Provvidenza (il suo amore per l’avventura alpestre lo fa anche diventare, nel 1950, assistente nazionale dell’ASCI, gli esploratori d’Italia). Dalle pagine del giornalino invita tutti ad evitare i crepacci delle entrate anticipate del Kyrie, prima i soprani e poi i contralti, alla battuta 16 ritorna il piano, poi subito non fortissimo perché vanno risparmiati forza e fiato per un aumento continuo sino alla fine, il Qui tollis del Gloria è da affrontare subito piano e a tempo, nel miserere nobis bisogna fare attenzione alle note lunghe in tutte le voci, è molto importante, attenti anche al ritmo, nell’Amen tenersi fiato e forza per un finale potente, respirare bene, specialmente i soprani, e attenzione alla nota finale che, come sempre, può rovinare tutto.
La vita nel Coro è una continua lezione di musica. Non tanto per le nozioni di base (per la tecnica di lettura di uno spartito ci sono corsi di teoria alle Crispi e durante i campeggi), quanto per le idee che Feininger trasmette continuamente come un’inesauribile fuga in avanti, andando oltre le note per spiegare il significato vero di una prova, di un concerto: dare forma e vita ad architetture di suono sorprendenti per difficoltà e contenuto.
Già ad una prima lettura ogni nota esprime una propria logica, una bellezza in sé, ed è nel lavoro di rifinitura che devono emergere le qualità volute dal compositore, anche se non esplicitamente espresse e indicate. È in questo momento che ci si rende conto di avere davanti, con lo spartito, uno stimolo per la mente, una spinta per il pensiero e l’estro musicale che sta in ciascuno, così da poter rendere quelle note un’opera d’arte. Cosa facile a dirsi ma bisogna fare breccia nell’inesperienza, nella disattenzione, nella paura dell’errore. Feininger sogna di riuscire a realizzare un coro di dilettanti – tali infatti sarebbero sempre rimasti – che, integrando le necessarie nozioni teoriche di base con la spontaneità della voce, arrivasse a dare dignità artistica a ciò che cantava, in modo da “destare l’interesse di masse impreparate”, come scrive Renato Lunelli nel Natale del ’53 in un messaggio al Coro. Dunque un’operazione di cultura, lenta come i secoli della musica, affidata a decine di ragazzi che in molti casi si trovavano di fronte allo spartito “come puri e semplici strumenti musicali”.[59] Il critico trentino scrive ancora che
Queste musiche hanno la loro ragione di essere valorizzate nel quadro della rivalutazione del barocco perché riflettono il miraggio di ardite prospettive che cambiano movenze dal diverso punto di vista in cui si colloca l’osservatore e qualcosa di analogo succede con la musica particolare del Benevoli.
E parlando della chiesa di San Francesco Saverio aggiungeva che il tempio è “stilisticamente aderente alle forme musicali connesse all’arte del Benevoli oltre ad offrire evidenti vantaggi acustici”. Di don Lorenzo e del suo Coro la città parlava in termini ufficiali ma pure di amicizia, in una rete di rapporti che si era andata sempre più infittendo. Ed era così possibile raccogliere pareri anche molto diversi, come quello del prof. Franco Defrancesco, uno degli intellettuali trentini a lui vicino, che lo sollecitava invece a cambiar chiesa, perché lì il Coro veniva penalizzato dall’acustica.
Su queste riflessioni si chiude anche il 1953. L’8 dicembre, come ogni anno, sono stati tesserati i nuovi cantori nell’assemblea generale delle Crispi, Coro e genitori insieme. È stato eletto il Comitato direttivo o forse è riconfermato quello vecchio. Feininger guarda alla legge sulla cultura sperando in un contributo che “possa mettere il Coro in grado di dedicarsi con sforzi proprii raddoppiati sì, ma anche con quella tranquillità che gli è necessaria per non lavorare nell’incerto alla sua attività artistica”. Vorrebbe che chi è preposto alla programmazione culturale si rendesse conto del valore del Coro del Concilio come prosecuzione delle Accademie musicali del passato (e cita la celebre Singakademie di Berlino, che ebbe origine proprio dall’entusiasmo che la lettura di una partitura di Messa a sedici voci del Benevoli suscitò in Cristiano Fasch nel 1791). Vorrebbe che si comprendesse anche che il Trentino ha nelle proprie radici una innata “predilezione per il canto corale”, che proprio questo coro può contribuire a sviluppare nel campo della musica sacra.
In un anno (nel 1952) il Coro aveva speso per il campeggio estivo di educazione artistica – così lo definisce Feininger – 230 mila lire; altre 550 per il viaggio in Germania, 140 per le registrazioni. Poche le entrate: 200 mila lire di sussidio dal Commissariato del Governo, 100 mila dal Comune di Trento, 275 mila dalle registrazioni radiofoniche a Colonia. La Provincia ha contribuito con 40 mila lire. Ecco dunque la richiesta di sovvenzioni per sostenere l’organizzazione dei campeggi estivi che si stanno rivelando i momenti più creativi, perché in poche settimane è possibile riunire i ragazzi senza distoglierli dallo studio durante l’anno scolastico.[60]
Il Coro è alla ricerca di un riconoscimento che stenta ad arrivare, insegue un ordine interno messo a dura prova dalle normali vicende di una vita di comunità, avanza fra grandi entusiasmi e forti delusioni. Però è questo in fondo il suo valore, questa la sua vera capacità di sopravvivenza.
Il 1954 è un altro passo avanti sulla strada delle relazioni internazionali. Il Coro fa appena in tempo a entrare nella Federazione internazionale dei Pueri Cantores che Feininger diventa capofila e traino di nuovi entusiasmi anche se prega tutti “solennemente, una volta per sempre, di non darmi incarichi di nessun genere. Vi darò io le idee, questo sì”.
Il 12 maggio invia una lettera a tutti i cori della Sezione italiana fondata da poco, nel ’50, dall’allora addetto alla Segreteria di Stato Vaticana, mons. Romita. In un incontro a Roma fra direttori e delegati regionali si è reso conto di quanto sia grande la distanza fra i gruppi italiani e le altre nazioni europee. Tanti iscritti, capacità diverse, enormi, di affrontare questo meraviglioso capitolo della musica antica.
I francesi vendono calendari a migliaia per finanziarsi, pubblicano un bollettino in sette lingue e il loro gruppo centrale (Les petits chanteurs à la croix de bois, I piccoli cantori della croce di legno, un gruppo pioniere del movimento che nel 1944 si costituì in Federazione internazionale) viaggia in tutto il mondo durante le vacanze estive. Perché noi no? si chiede Feininger. Serve subito, scrive, un giornalino nostro (costerebbe appena 30 lire a numero) sul quale discutere problemi artistici, tecnici e organizzativi, lanciare programmi, preparare convegni regionali, poi nazionali e quindi internazionali. Bisogna collegare le attività, creare un fondo comune per fare fronte ai progetti che, gira e rigira, si riconducono ad una sola, unica idea, far diventare il canto messaggio di qualità, di spiritualità e di cultura a sostegno di una educazione scolastica carente in campo musicale.
A scuola si dovrebbe cantare, il canto e la teoria dovrebbero essere materia di programma. Per Feininger non c’è nulla di difficile, si impegnerà lui a “far avere a tutti su un solo foglietto di carta i fondamenti della teoria musicale”. Propone collegamenti con la Schola cantorum di padre Catena a Roma, specializzata in polifonia classica romana, e con mons. D’Alessi che a Treviso è concentrato sulla scuola veneta. E poi l’idea di un concerto di tutti i cori a margine di qualche convegno. Sarà sufficiente distribuire le partiture per le prove singole, ognuno a casa propria, poi ci si ritrova e in poco tempo si mette insieme un concerto gigantesco. “Possiamo cantare anche in quattromila”, scrive in una vampata di passione.
Certe cose, butta lì, le facciamo noi a Trento da cinque anni e con poche voci: “l’effetto di queste musiche supera di gran lunga, fino all’incredibile, le solite musiche corali e sarebbe davvero qualcosa di inaudito e del tutto nuovo se si riuscisse a realizzarlo”.[61]
Con questi argomenti il Coro del Concilio si presenta dunque alla Federazione Pueri Cantores (oggi ventimila iscritti, un migliaio di cori, 50 quelli italiani con 2500 cantori). Don Lorenzo non conosce limiti. Bisogna pensare subito alle partiture in una edizione pratica con l’indicazione del tempo, del fraseggio, della dinamica. Sembra uno scherzo cantare Benevoli in quattromila. Ma resta tutto lì, su una pagina bianca. Non se ne fa nulla ma si va avanti lo stesso, tanto le idee non mancano. E nemmeno le forze mancano, perché il Coro del Concilio è sempre un grande richiamo e il reclutamento nelle scuole di Trento, con il vecchio sistema dei vocalizzi sulle note dell’armonium a mano, resta la strada più sicura per garantire il rinnovamento. A metà degli anni Cinquanta, con i palcoscenici delle cattedrali europee – Vienna e Parigi in primo piano – sullo sfondo della storia del Coro, si afferma la generazione dei Russolo (tre fratelli, Marcello, Marco e Paolo), dei fratelli Orlandi (Luigi e Orlando), di Mario Bosetti, Renzo Coram, i fratelli Sassella (Aldo e Bruno), Claudio Jungg, i Cortelletti (Giuliano e Graziano), i Basso (Antonio, Luigi e Giustino), i fratelli Detassis, Enzo e Franco, gli Abbasciano, i Martinelli, Marco, Carlo, Paolo Stefenelli, i fratelli Zorzi (Piergiorgio e Marcello) e decine di altri, certamente importanti, ai quali il Coro deve un pezzo della sua storia ma sui quali purtroppo la memoria non soccorre.
In autunno il Coro cambia sede (ha trascorso l’estate un po’ a Vignola Falesina e un po’ a Caorle), anzi entra in possesso di una sede tutta sua, uno stanzone con la volta a botte in un edificio del centro al n° 10 di vicolo Colico. Glielo mette a disposizione con affitto agevolato Renato Lunelli, l’amico musicologo. Con entusiasmo infantile don Lorenzo descrive i soffitti bianchi, i pavimenti puliti, il nuovo impianto elettrico, una stanza di lavoro tutta per lui verniciata di un rosso forte “e vi risalta ai lati il disegno di un delicatissimo fiore dorato”, il suo scrittoio, gli stipiti delle porte verniciati di bianco. Qui si lavora bene, il salone delle prove è lungo 12 metri (ci starà fra qualche anno un organo Mascioni), vi si possono tenere anche le assemblee. Finalmente una sede propria. Lontani i tempi della Juventus, belli ma lontani.
Le stagioni passano veloci e del resto non c’è tempo da perdere perché don Lorenzo va sempre di corsa, non conosce gli adagio. I progetti e i programmi, non soltanto quelli musicali, fioriscono con la velocità del pensiero. Dal Massachussets manda continui messaggi. In testa alle registrazioni imminenti ci sono la Tira corda, la Si deus pro nobis, Dixit e Laudate, i due Magnificat, il Dixit a 8 e un nuovo Magnificat; poi la notizia che sta lavorando a una Messa a 17 voci scritta da Paolo Petti, un allievo di Benevoli, per l’Anno Santo 1675, ma non si capisce se è destinata al repertorio del Coro oppure se è soltanto una parte dell’attività editoriale. Ad ogni scoperta si affina sempre più il profilo del caposcuola Orazio Benevoli, figlio di un pasticcere della Lorena, tale Venouot, che nel 1617 aveva affidato il ragazzo dodicenne, nato il 19 aprile 1605, ai padri rettori di San Luigi dei Francesi, a Roma, sognando per lui un radioso futuro canoro nella terra dei Papi.
Fra una trascrizione e l’altra Feininger trova il tempo per curare la biografia di Benevoli che poi comparirà sulle enciclopedie della musica. Ma sta pensando anche a un libro. È attratto dalla figura di questo ragazzo che brucia le tappe, che a 18 anni è nominato maestro di cappella a Santa Maria in Trastevere e poi a Santo Spirito in Saxia, che sarà uno dei punti strategici della ricerca musicologica di Feininger. Ancora maestro di cappella a San Luigi dei Francesi, rampa di lancio per Vienna dove lavorerà al servizio dell’arciduca Leopoldo Guglielmo. Il padre ha italianizzato intanto il cognome in Benevoli o Benevolo, non si sa bene, e in Italia il giovane Orazio completa la propria storia musicale come maestro di cappella in Santa Maria Maggiore e in San Pietro. L’estrema povertà – scrive Feininger – non gli permise di pubblicare le sue composizioni realizzate con una “tecnica forse mai più uguagliata, formula inedita per condurre quattro bassi come fondamento di 16 voci divise in 4 cori e inoltre la fuga, l’alternanza dei cori, i ripieni dinamici e i ripieni statici, il cantus firmus tra i suoi procedimenti tecnici caratteristici”.
Benevoli muore nel 1672, a 66 anni, lasciando una quantità di opere, Messe, Salmi, Inni a fare da fondamento alla colossale Missa Salisburgensis a 54 voci e basso continuo, per la quale e soltanto per quella è stato a lungo ricordato fino alle riedizioni moderne del Coro del Concilio.
Nella sua casa di Stockbridge Feininger porta avanti un lavoro imponente, eroico, come lui dice. Il ritmo è di otto pagine di partitura al giorno e di solito arriva giusto all’ora di cena. Ha scoperto un compositore completamente ignorato, Francesco Berretta, un musicista pieno di difetti, raddoppiamento di voci, intervalli proibiti, ma tuttavia musicista “davvero notevolissimo e ci sono delle cose veramente bellissime che senz’altro un giorno dovremo cantare”. Intanto lo studia a fondo, questo Berretta, anche perché gli tornerà utile in vista del futuro libro su Benevoli. Conclude le sue giornate americane al pianoforte dove suona un po’ di Bach, di Mozart e di Scarlatti. Di quest’ultimo ha acquistato due volumi di 60 sonate edite negli Stati Uniti, “cose molto strane ma anche molto belle e difficilissime”, una parola rara nel suo vocabolario.[62]
L’ingresso nella Federazione dei Pueri Cantores costringe il Coro a risolvere definitivamente il problema della divisa, una croce di legno su una tunica bianca. C’è fretta anche per lo statuto dell’Associazione ancora in cantiere (a che punto sta? chiede, mandatemi le bozze). Ma non è tutto. Si fa strada da tempo l’idea di costruire una casa, se è fuori Trento servirà per i campi scuola, se a Trento invece potrebbe essere la sede definitiva. Bisogna parlare con il Comune (in una lettera suggerisce di sentire il Comune di Povo e sta pensando evidentemente agli uffici comunali del sobborgo), oppure bisogna darsi da fare a cercare un terreno, magari in valle dei Mocheni dove un anno prima erano andati in campeggio, a Fierozzo.
In tutta questa esplosione di idee non manca l’attenzione per i concerti: il 19 aprile, giorno del compleanno di Orazio Benevoli, il Coro ha cantato in San Francesco Gloria e Credo della Tira Corda, il Magnificat a 8, il Laudate Pueri a 16 e il Magnificat octavi toni a 8 voci, concertato, con il pensiero già rivolto al 350° anniversario della nascita del maestro di cappella romano che cadrà fra un anno. Preludio alle future celebrazioni, ha fatto sentire infine la sua voce barocca al Congresso internazionale dei Pueri Cantores in tre concerti a Roma (due a San Giovanni in Laterano, il terzo nell’auditorium di Palazzo Pio) in compagnia di altri 23 complessi corali di mezzo mondo.
Il finale dell’anno è all’insegna della distensione perché porta, nei giorni di Natale, davanti al primo albero illuminato nella sede di vicolo Colico, dove arriva anche l’Arcivescovo di Trento. E a mons. de Ferrari il Coro regala il nastro della registrazione del Laudate Pueri.
Feininger aprirà l’anno nuovo con una conferenza a Roma (il 27 gennaio), invitato dall’Accademia di Santa Cecilia, per rilanciare l’attenzione su Benevoli nell’anniversario della nascita. Orazio Benevoli e la scuola policorale romana, un’inspiegabile lacuna della storia generale della musica è il titolo che Feininger assicura essere lontano dalle polemiche (“se a qualcuno non è gradito, rinuncio volentieri”, scrive all’Accademia) ma che gli servirà per sottolineare il valore delle sue ricerche e il ruolo del Coro in questa attività di ricucitura della storia, perché a Roma porterà le registrazioni di Trento.[63]
Il 1955 rinnova l’utopia di una stagione europea che possa finalmente conquistare un pubblico nuovo, sedotto dalla musica policorale della scuola romana del Seicento, dietro la quale il Coro del Concilio sta perdendo letteralmente la voce, alle prese quotidiane com’è con il passaggio dei soprani nei contralti o dei contralti nei tenori o nei bassi.
Il futuro si va concentrando oltre il Brennero e sull’asse del Danubio, Monaco, Vienna, Salisburgo, Ulma, Bad Tölz. Un altro tassello di una piramide in cima alla quale ci sia un unico modo, condiviso da tutto il mondo, di cantare queste armonie.
I confini geografici non sono mai stati un problema per Lorenzo Feininger che non conosce difficoltà, perché sa benissimo quanto possa giovare il miracolo del canto ad annullare le distanze. Sono occasioni rare, preziose per quei tempi, quando una gita al di là del Brennero era spesso il privilegio concesso dall’autostop a pochi studenti. Questo spiraglio nella tranquillità trentina dei primi anni Cinquanta si era aperto improvvisamente nelle abitudini casalinghe di molti ragazzi già con la tournée del ’52 a Colonia, ma non è detto che queste opportunità fossero sempre apprezzate, soprattutto quando l’impegno necessario per realizzarle si spingeva un po’ più in là del divertimento. E così don Lorenzo si era trovato qualche volta a programmare viaggi e concerti confidando in una serietà di studio che improvvisamente veniva a mancare.
È quanto succede nel giugno del ’55. Dalla sera alla mattina viene annullata una serie di concerti programmata a Norimberga in occasione del congresso organistico internazionale. Semplice la ragione: troppe assenze alle prove, troppa indifferenza di fronte alle prospettive. C’è un solo rimedio: ridimensionare l’organico, fuori chi non dà più affidamento e si ricomincia daccapo con nuovi cantori. Ne parla davanti a tutti prima della prova generale del sabato sera e la minaccia di un ridimensionamento drastico fa subito effetto. Tutto rientra, anzi, la scampata bonifica rilancia gli entusiasmi e fa rinascere promesse di fedeltà, ma intanto la tournée è stata annullata. Don Lorenzo ha però infinite risorse e riesce a mettere in piedi in pochi giorni un viaggio alternativo in Germania. Dopo una notte in corriera il Coro arriva all’Ostello della Gioventù di Monaco. È la sera del 29 giugno, piena estate. Si è viaggiato con i finestrini aperti e la voce si è abbassata, ma il Coro scende subito in campo e canta in una chiesa della zona, una prova generale aperta al pubblico. Il giorno dopo concerto nella chiesa di San Pietro e Paolo. Poi ricevimento dal console italiano a Monaco, incontro con il sindaco e con il ministro della cultura e ad ogni incontro una breve esecuzione di brani con richieste di replica. Il Coro rientra dopo due giorni con tappe turistiche a Ettal e a Oberammergau. Il viaggio si è risolto in una piacevole gita, nulla più, ma è servito a porre le basi per l’anno successivo, quando il massimo dello sforzo artistico sarà concentrato in un viaggio di nove giorni con meta finale Parigi, che ospiterà il congresso mondiale dei Pueri Cantores.
Intanto si va avanti con il lavoro estivo. La gita ha fatto bene al morale di tutti e ora sono previsti due lunghi periodi di vacanza, mare e montagna. A Pesaro, in luglio, il Coro alloggia in un edificio del centro storico, a due passi dalla casa di Rossini, e il lungo andare per le stradine della città porta i ragazzi a piccoli gruppi su spiagge interminabili, quasi deserte, tanta sabbia, il mare delle cartoline con l’acqua che manda i riflessi azzurri di cinquant’anni fa. Quella di don Lorenzo non è una colonia e i ragazzi vanno e vengono da casa quando ne hanno voglia, importante è mantenere gli orari, rigidissimi, delle prove. Si sta preparando la Si Deus pro nobis che verrà eseguita nella chiesa di Santa Lucia il 17 luglio e una settimana dopo nel Municipio di San Marino. Finito il soggiorno al mare si va in montagna, tutto agosto a Vervò (anche lì due uscite in pubblico). I concerti estivi si concludono il 21 agosto a Sella Valsugana, nel primo anniversario della morte di Alcide Degasperi.
Il 1955 si chiude con una grande conquista musicale, l’esordio in pubblico del Dixit Dominus a 24 voci, una delle più impegnative composizioni prodotte dal barocco italiano. E c’è un filo sottile, quasi di legittimazione storica, dietro la costruzione del repertorio che pazientemente Lorenzo Feininger insegue, giorno dopo giorno, legando un pezzo all’altro lungo la biografia artistica di Benevoli, ma senza perdere di vista l’habitat moderno in cui queste note rivedono la luce. Nessuna partitura è scelta a caso. Il Dixit viene studiato ed eseguito a Trento perché la città non è estranea alla creazione di musiche a 6 cori e ospita nei suoi archivi la composizione che Virgilio Mazzocchi scrisse nel 1640 per solennizzare la laurea del trentino Bernardo Barbi, come ricorda Renato Lunelli nella sua generosa campagna condotta sulle pagine dei giornali, perché Trento riconosca a se stessa il primato invidiabile nella policoralità internazionale.
CAPITOLO III | L’AMERICA, UN MIRAGGIO
In questa rincorsa del tempo sta tutta la proposta artistica e umana del Coro del Concilio. Non si tratta più soltanto di studiare il Benevoli, di capire sino in fondo il flusso barocco delle melodie, ma di impadronirsi del canto come di uno strumento per altre conquiste; si tratta di vivere la musica come cultura forte in mezzo alle incertezze della vita, perchè può allentare le tensioni quotidiane, perché è un patrimonio cui tutti possono attingere nell’infinità dei suoni che la storia ha tramandato, perché il linguaggio delle note è il linguaggio delle emozioni, basta saper ascoltare per entrare nei misteri sonori che aprono la strada della fantasia, appagano sensi e ragione.
Feininger crede in questo valore di conquista, in questa capacità di superare barriere di ogni tipo, perché l’ha sperimentato sul campo andando a scovare il pensiero musicale murato dietro i lunghi secoli della Chiesa. Ma al di là dei contenuti di spiritualità c’è una profondità laica che traspare dalle note, anche come occasione per penetrare nell’intreccio della vita sociale, per legare i momenti del lavoro, dello studio, per accompagnare le scansioni della politica e rendere solenni gli eventi.
Ecco dunque come il respiro delle armonie si integra con il respiro del tempo, con l’anima della storia dove tutto è collocato al posto giusto, dove l’arte può convivere con il canto: Michelangelo e Palestrina – diceva Feininger – Benevoli e Bernini.
I tempi sono maturi per realizzare il vecchio progetto (mai decollato ufficialmente) di un’Associazione che rifletta queste aspirazioni sancite dalla firma di un notaio. Le strade da percorrere sono quelle già collaudate, solo che adesso si mettono sulla carta: insegnare canto corale, organizzare concerti, promuovere convegni e dibattiti. Il Coro del Concilio diventa punto di riferimento, entra nella vita della città impegnandosi a sostenere l’educazione musicale dei giovani, ad affiancare eventi e solennità, protagonista del calendario trentino.
Viene affrontato il discorso della divulgazione “a mezzo riproduzioni fonografiche”. Lo statuto è esplicito quando fissa rigidi confini per il Coro nella “diffusione della polifonia classica in particolar modo quella meno conosciuta perché di difficile esecuzione”. E poi ci sono i vantaggi che possono venire da un’attività didattica specifica, che prevede lezioni lungo l’arco dell’anno scolastico, quasi un affiancamento informale alle attività ufficiali della scuola, si potrebbe dire un momento di supplenza più che di integrazione. Ci si può avvicinare alla musica anche saltando i gradini più facili, più elementari, direttamente davanti a un giradischi con i Concerti Brandeburghesi o con le Suites di Bach raccomandate da Feininger ai coristi per la loro perfezione stilistica. Del resto lo statuto dell’Associazione prevede per il direttore “ampia facoltà di stabilire programmi per lo svolgimento di qualunque attività musicale”.
Gli obiettivi superano infine la soglia del canto e si colorano di altri aspetti: la salute fisica dei ragazzi con i campi scuola e l’educazione morale e civile.
Per i soci attivi – i coristi – si attinge al serbatoio naturale delle scuole elementari e medie di Trento e dintorni. Un supporto importante è poi costituito dai soci sostenitori, in pratica i genitori dei cantori minorenni, e da altre persone fisiche o giuridiche. Il Coro consegna ai 13 articoli dello statuto una finalità di lavoro e di vita che ha affinato nel suo breve ma intenso passato. Il notaio Conci sigla il 7 gennaio 1956 l’atto di costituzione dell’Associazione denominata “Coro del Concilio”, forte di 80 soci (i cantori) e retta da un Consiglio direttivo di fatto già operante, formato da Tarcisio Cembran (presidente) e dai consiglieri Vittorio Decarli, Renato Jungg, Rodolfo Piazza e Livio Zorzi (tutti genitori di coristi) e naturalmente dal direttore.[64]
È un passaggio importante. Il Coro ha vissuto sei anni molto vivaci lungo un sentiero sassoso sul quale era facile inciampare, conquistandosi alla fine un orizzonte sicuro da dove guardare ad altri sentieri. Campi scuola ogni estate, due viaggi in Germania, tre volte a Roma, sessanta concerti, un repertorio di grande valore e di impensate difficoltà divenuto punto di riferimento di ricerche mai tentate prima d’ora nella storia della musica corale. È il passaggio a un’esistenza nuova, molta ansia alle spalle, forse un futuro di tranquillità.
Tutte queste cose Feininger le spiega in una conferenza che tiene alla Biblioteca di New York nella primavera del ’56 facendo ascoltare pezzi di registrazioni del Coro, parlando di Benevoli e di Ottavio Pitoni, di Gregorio Ballabene e di Pasquale Pisari, capostipiti a Roma e in Europa, i due ultimi mai comparsi nei programmi di Trento, ma New York è una platea diversa che ha forse bisogno di altri affondi. Feininger racconta di queste grandi messe che venivano cantate nelle basiliche romane davanti a una folla incantata. Ricorda agli americani una Messa di Benevoli a 48 voci, un contrappunto fra i più complicati che sia mai stato scritto, eseguita a Roma in Santa Maria sopra Minerva da 150 professori il 4 agosto 1650. Di quella partitura non si sa più nulla, persa fra le rovine del tempo e di quell’evento – scrive con molto calore un giornale di New York – non resta che il ricordo delle voci che scuotevano le travi in quel lontano mattino.
Il pubblico americano apprende così il progetto, in quel contesto più che normale ma innovatore per noi, di una scuola di montagna da realizzare sopra Trento. Il governo trentino (evidentemente la Regione) si sarebbe impegnato per la metà dei 24 mila dollari necessari. Il tutto, spiega Feininger, per realizzare un hobby con il quale 80 ragazzi stanno battendo il calcio e la televisione.
La scomparsa del padre, il 17 gennaio 1956, lo colpisce in uno dei momenti più fervidi della vita del Coro. Nella sua casa di New York con la madre e i fratelli si accorge di quanto sia grande l’affetto di Trento per la sua famiglia. La città ufficiale si stringe attorno al musicista, mentre lettere e cartoline, le vecchie gialle cartoline postali con gli incoraggiamenti dei cantori, attraversano l’oceano. Questa volta l’assenza del direttore andrà oltre i tempi previsti, ma non ci sono problemi – lo rassicurano – continueremo noi. Intanto don Lorenzo ascolta e riascolta i nastri delle registrazioni su un vecchio magnetofono. Lo preoccupa la mancanza di affiatamento fra Coro e organista.[65] Bisogna capirsi, scrive, o l’organista si adatta a noi o dobbiamo adeguarci noi. Ma poi arriva alla conclusione per lui più ovvia: l’accompagnatore è un esterno al Coro, vive la musica da un altro pianeta, meglio cambiare. Raccomanda a tre cantori di assumersi la parte del basso continuo:
Trascrivetela e riducetela finchè vi viene comoda da suonare e poi copiatela in bella copia in maniera che non ci sia da voltare pagina in nessun punto scabroso; non è il caso di fare economia di carta e prendetene quanta vi occorre da Gottardi sul mio conto. Fate le prove accompagnate per intero dall’organo così i cantori si abituano a stare sul tono.[66]
Sono mesi di fitta corrispondenza. Feininger scrive fiumi di lettere con la sua Olivetti, riempiendo a spazio uno decine e decine di fogli di carta riso. Scrive senza errori di battitura, capoversi a rientrare, margine allineato a sinistra e a bandiera sulla destra, ma se non deve chiudere un capoverso scrive finchè c’è carta. Comincia con un “carissimi” e chiude con un “aff.mo don Lorenzo” o “con affetto don Lorenzo” oppure “in Domino don Lorenzo”. Abita nella 22° Strada e dalla stanza che guarda un orizzonte di grattacieli accarezza sogni, progetta avventure musicali, disegna strategie di lavoro. Vive con entusiasmo infantile questo momento. Pensa a due organici distinti che possano camminare in parallelo: “possiamo lavorare a un rendimento multiplo abituando ogni cantore ad andare da solo, così invece di fare tutti la stessa cosa, nei campi estivi possiamo preparare varie cose simultaneamente”. Lo sguardo sempre in avanti ma con l’attenzione a non perdere di vista la storia: “sarebbe bellissimo se un po’ alla volta potessimo ripassare anche le cose del passato”.
In un’altra lettera raccomanda ai cantori che lo sostituiscono a Trento nelle prove di usare con i nuovi “la massima pazienza e un trattamento di persuasione e di invogliamento affinché rimangano il più possibile. Ma se non vanno bene – aggiunge – sostituiteli senza tante storie”. Problemi per organizzare le prove nel doposcuola, al termine delle lezioni, non ce ne sono perché alle Sanzio ha il consenso della direttrice Clementi, mentre una mano per insegnare la teoria ai più piccoli (lui scrive “ai boci”) la dà anche l’insegnante Lisimberti. Il serbatoio maggiore viene dalle quarte dei maestri Covi e Janeselli, un piccolo vivaio al quale bisogna fare molta attenzione perché “l’avvenire prossimo del Coro dipende proprio dai nuovi”. Però su questi bisogna lavorare molto perché “i soprani sono troppo deboli e dei contralti molti hanno difficoltà nelle note lunghe e acute”.[67]
Ha seguito a New York un concerto di musiche a più cori, 38 soprani, 32 contralti (tutte donne), 10 tenori e 24 bassi più due complessi di ottoni e un organone. Suonavano e cantavano pezzi di Giovanni Gabrieli, ma il giudizio è senza appello: “tenori e bassi da operetta di quarta categoria, i gargarismi dei solisti da far ridere le galline”. Anche la musica “è poco interessante. È prettamente rinascimentale e lo splendore di un apparato maggiore del solito – 5 o 6 voci – equivale a una specie di gonfiatura artificiale non giustificata dal contenuto musicale, si potrebbe anche realizzare con meno voci”. Non così per Benevoli e per tutti i romani del Seicento che “fanno della musica che non si potrebbe fare con meno di 16 voci”. La conclusione è che: “uno di voi per ogni parte avrebbe fatto meglio e di più”. E poi la maniera di cantare “la più insulsa e insipida che potete immaginare, proprio da donzelle, purtroppo l’unica conosciuta e apprezzata qui”.
Sono tempi di grandi emozioni, di grandi slanci. C’è una consapevolezza nuova, mai provata, quando il Coro, sulla strada per Parigi, nella tournée del ’56 canta il 3 luglio nel duomo di Ulma il Magnificat a otto voci, un’esibizione non prevista, nata fra i colori delle vetrate e le volte gotiche: un modo, che si ripeterà altre volte prima e dopo i concerti, di far rivivere fra la gente l’antico sentimento della musica. Il Coro viaggia, canta, lancia un’armonia, oggi una chiesa, domani la piazza di un municipio, il cortile di un castello. Chi passa si ferma, ascolta, applaude, afferra il senso di una vita trascorsa. Melodie mai sentite, eppure eccole lì, ci sono ancora. Il Coro del Concilio è informale anche in questo, siate sempre voi stessi, diceva don Lorenzo ai cantori, dovete essere in grado di immedesimarvi nel momento artistico che avete scelto di interpretare.
A Parigi il Coro è ospitato in famiglie distribuite sulla città. “Adottate un corista” verrebbe da dire oggi nella formula organizzativa di moda, quasi un titolo di merito tra famiglie d’élite che ha soppiantato il vecchio, naturale atteggiamento di solidarietà. I lunghi trasferimenti a piedi per raggiungere il luogo delle prove attraverso piazze e strade mai viste o di corsa lungo i viali della Senna e ancora dentro il parco a scrutare i tralicci della Torre Eiffel riempiono le giornate di spensierato abbandono. La storia del Coro è anche questo girovagare continuo tra gioco e studio, tra fantasia e vita da adulti, nella responsabilità assegnata a ciascuno di portarsi sulle spalle il peso e il piacere della musica.
Il congresso mondiale dei Pueri cantores, con 6500 ragazzi ammassati a Notre Dame, segna un momento di solenne internazionalità nella storia del Coro. In quei giorni il canto polifonico dilaga davanti all’Hotel de Ville, sede del Municipio e della Prefettura, nel Velodromo d’inverno, all’Arco di Trionfo dove le decine di cori cantano da soli e per gruppi nazionali, per lo più mottetti a quattro voci. Il Coro del Concilio chiude il congresso con un concerto tutto suo a Notre Dame de la Gare. Ha viaggiato nove giorni attraverso l’Austria, la Germania e la Francia su due pullman della ISA di Pergine. Soste culturali a Monaco (con due concerti nella chiesa di San Gabriele e in quella dell’ospedale tedesco-americano), Ulma, Stoccarda, Karlsruhe. Il rientro si abbandona ai paesaggi alpini del Moncenisio e della valle di Susa dopo la visita di Lione e di Grenoble. Aspetta a Trento un nuovo repertorio: la Missa Pastoralis a otto voci e un Magnificat a quattordici voci, due pezzi che si metteranno in piedi in un mese di lavoro al campo estivo di Bresimo (l’esordio in due concerti nel santuario della Madonna a Baselga di Bresimo e a San Giacomo per la festa del patrono), frutto di una “sovrumana pazienza di don Feininger” si legge su Il Gazzettino, che pone però qualche riserva sul risultato artistico. “Se potessimo sentire il Coro del Concilio in altri autori meno esigenti e più adatti alle voci di quei ragazzi, potremmo fare confronti e forse Benevoli ci guadagnerebbe a lasciarsi eseguire solo nelle composizioni a quattro voci”. Ma subito dopo: “chi lo ferma don Feininger?”. Il giornale arriva poi a una critica benevola con le lodi a questo direttore “che istruisce ed educa nell’arte del canto uno stuolo di giovani”.[68]
Qualche problema nell’affrontare il nuovo repertorio lo rileva anche Renato Lunelli commentando su l’Adige il concerto del 26 novembre nella chiesa del Santissimo, che chiude la stagione 1956: “il difficile «Magnificat» è forse ancora una composizione superiore alle forze del Coro”.[69]
Giorni e mesi corrono veloci. Il Coro è in una fase più che mai creativa. Le stagioni seguono un calendario tutto particolare: i viaggi di don Lorenzo negli Stati Uniti per stare vicino alla madre, i campi estivi che diventano il momento più produttivo perché favoriscono un’organizzazione razionale del lavoro, mettendo d’accordo spazio e tempo; le tournée all’estero che tengono alta l’attenzione sui confronti europei, dove la musica di Benevoli si incontra con cori di “ottima preparazione e di attenta disciplina – dirà a commento di un viaggio a Monaco – ma che cantano un repertorio del quale mi interesso pochissimo e in un modo di cui non mi curo affatto”.
Il Coro è una macchina che produce musica a ritmo incessante. Il repertorio abbraccia nuove pagine che la ricerca senza sosta di Feininger porta continuamente alla luce. Don Lorenzo si muove con tecniche a volte rudimentali, con attrezzature artigianali. Va ad esplorare gli archivi di San Giovanni in Laterano con un pesante cavalletto di legno che Gianfranco Piazza gli porta a spalla per fotografare Antifonari e Graduali. Ottanta chilometri di fotogrammi – scrive Giorgio Grigolli su l’Adige – che Feininger aveva scattato con la sua inseparabile “Voigtlaender” per affidarli, al rientro da ogni viaggio e da ogni archivio, alle mani esperte del fotografo Grosselli o di Carlo Valentini.[70] Poi si organizza con una camera oscura, il che gli consente di allungare in tutta autonomia la sua giornata lavorativa, sostenuto – come ricorda il suo collega musicologo Lowinsky – da una “enorme forza di volontà e dalla resistenza di un atleta”.
Feininger guarda sempre avanti ma non perde mai di vista quello che sta dietro, la strada percorsa. E mentre pensa a una nuova generazione di cantori, consolida i rapporti con i vecchi. Non c’è tempo da perdere. È un cerchio che si apre e si chiude continuamente: avere un organico all’altezza del repertorio vuol anche dire accelerare i tempi d’acquisizione delle nuove partiture e quindi crescere in bravura ed essere in grado di affrontare altre difficoltà.
Alla Columbia Records Company spingono per dare il via a un’edizione di Benevoli in disco, basta soltanto correggere qualche distorsione, vale a dire qualche difetto tecnico di registrazione. Ma sono altre le cose che frenano gli entusiasmi. Uscire adesso vorrebbe dire esprimersi al settanta per cento. Meglio aspettare, limare i brani, cercare un’intesa migliore. Alla Columbia insistono con Feininger. Lui risponde che si può fare di più, nessuno porterà via l’idea, perché nessun coro al mondo può cantare queste cose. Non c’è fretta, continua a ripetere, assorbito da una pianificazione meticolosa.
Nel primo disco ci saranno il Laudate in una vecchia versione riuscita molto bene, l’unica senza difetti, e la Missa Pastoralis. Però bisogna eseguirla alla perfezione per non farla sfigurare di fronte al Laudate che come struttura è di molto superiore. Il secondo avrà sulla prima faccia i due Magnificat a otto voci, mentre l’altra sarà occupata per intero dal Confitebor interpretato da un solo cantore per voce, una specie di scommessa. Sul terzo infine la Messa Si Deus pro nobis. Tre registrazioni per aprire al Coro la via dell’America, ovviamente soltanto con cantori di prima classe. Quindi prove selettive, rigide, tempi stretti, impegno totale.
Sempre alla ricerca della perfezione Feininger riparte continuamente da un punto fermo, molto impegnativo: provare e riprovare ogni pezzo con un solo cantore per voce, sedici cantori per ogni brano a sedici voci, facendo ruotare in questo esercizio di abilità e di resistenza l’intero organico in modo che ognuno impari a difendersi, solo contro tutti, in ogni momento, davanti a ogni spartito. Siamo all’apice dell’euforia, oltre il quale non si può che precipitare. È la primavera del ’57 e don Lorenzo sogna per l’ultima volta l’America, ma è troppo difficile mettere d’accordo il sogno con la realtà. Persa ogni speranza di portare al di là del grande mare il senso antico della musica, è stata una piccola escursione nel futuro, nulla più. Non si farà mai la grande traversata. Feininger comincia forse a sentire il peso delle delusioni. Un anno dopo scriverà da New York che va bene non essere sentimentali (non lo è nemmeno lui), ma almeno il senso dell’amicizia andrebbe salvato. Lontano da Trento si sente invece dimenticato dal suo Coro, nessuno che lo incoraggi – a parte i pochi fedelissimi – in questa sua impresa ciclopica. Riempirà tre pagine del giornalino ricordando con malinconia che
abbiamo fatto molte cose, viaggi, produzioni, nuovi repertori, che non hanno contribuito per nulla a giustificare una fama che prometteva tanto bene dopo un inizio veramente grandioso del Coro nel suo primo anno di vita. Una qualità di esecuzione come quella di Roma non l’abbiamo mai più raggiunta. Qual è il punto? Pretendere di cantare bene strapazzando la voce fino all’ultimo momento prima del concerto, non riuscire a concentrarsi su quello che si sta per fare finchè il nastro non si mette a girare, ecco qualcosa che cozza contro il buon senso, contro l’intelligenza, offende la dignità di ciascuno di noi.
E poi il valore delle prove. Nemmeno un super professore diplomato – diceva – potrebbe pretendere di suonare bene facendo soltanto concerti. E tuonava contro la mentalità scolastica “del cavarsela”. Nel Dixit a 24, ad esempio, i soprani sesti non avevano mai confessato di avere difficoltà a trovare la nota giusta. Erano semplicemente contenti del fatto che il direttore, intento a seguire i contralti quinti e le successive entrate, non se ne accorgesse.
Feininger detesta la severità imposta, le minacce e le punizioni, spera soltanto nella resa di chi non è d’accordo con lui e nell’uscita volontaria dal Coro, spera in una sorta di selezione naturale che già in passato ha dato qualche frutto. Cosicché tutto quello che si fa in questi mesi scorre via in una normale routine, con il rimpianto di non essere qualcosa di più. Un campo estivo a Seregnano nel ’57, dopo che si era vagheggiata l’idea di una vacanza avventurosa nell’abbandonata Villa Camparta di Meano, nella stessa estate due settimane a Caorle al mare e un viaggio a Monaco con visite al Museo nazionale e alle gallerie d’arte, ricevimenti in Municipio e al Consolato italiano con brevi esibizioni, un concerto-concorso e una Messa cantata nella chiesa Regina della Pace. Nel ’58 ancora concerti a Bad Tölz, dove si canta nella chiesa dei Francescani, restituendo la visita di un anno prima dei Badtölzer, il coro di quella città, e il giorno dopo nella sala dei marmi del castello Mirabell a Salisburgo davanti al sindaco, che si rallegra a nome di Mozart per una esecuzione così “piena e fine”.
La breve tournée si fa con 48 cantori e al rientro in 46 saliranno a Cortesano per il campo estivo. L’anno si chiude con alcuni concerti alla Filarmonica, in Santissima Trinità, in San Francesco Saverio. Si insinua però un senso di stanchezza, forse c’è un limite fisico alle cose, forse di più non si può fare. Nelle lettere a casa don Lorenzo parla di lavoro
deludente. Devo vedermela – scrive nell’ottobre del ’58 – con il fatto che questo Coro esiste ancora, è a Trento ed è composto da trentini. Altrove ce ne sarebbero altri, con altrettanti elementi non buoni e bisognosi di guida e deprimenti come qui. In tempi come questi, la sola esistenza di un coro come il nostro è anacronistica. Eppure a volte cantano in un modo tale da far andare in estasi.
È forse il segno che nella vita di questo Coro che alterna umori e passioni c’è nel fondo una proiezione umana che lo fa riemergere con forza da ogni depressione.
Il 2 gennaio 1959 il Coro riprende da Roma la corsa per celebrare i dieci anni di vita. Concerti in Sant’Ignazio, come nel ’50, nella chiesa dei Quattro Coronati, al Pontificio Istituto di Musica Sacra e davanti a papa Giovanni XXIII in Vaticano. Esecuzioni ottime, grande affiatamento, c’è l’euforia delle vacanze di Natale a dare la spinta per vivere meglio questi tre giorni lontani dalla scuola e dal lavoro.
Il clima delle grandi sale negli spazi romani, ormai quasi familiari, rilancia la forza del Coro, la sua fantastica capacità di improvvisare soluzioni canore di qualità anche nei momenti più impensati, all’indomani di crisi profonde. È un gioco che continua, un andirivieni di emozioni. Prove disastrose ed esecuzioni perfette. L’austerità dei luoghi e del pubblico non spaventa minimamente i cantori, né i vecchi né i giovani, consapevoli al punto giusto e al momento giusto della loro forza di professionisti ancora dilettanti.
Don Lorenzo per la prima volta mette in discussione il programma dell’anno, lancia un referendum fra i cantori (fra chi ha almeno un anno di anzianità), offre possibilità di voto anche ai consiglieri della Direzione. Una novità nella programmazione del repertorio che Feininger ha sempre gestito da solo, perché questa era la sua idea di democrazia: ascoltare, dialogare ma decidere da solo, sempre e comunque.
I cantori potranno scegliere fra la Messa del Piave di Ottavio Pitoni, 16 voci, una Messa ‘difficilissima’, brani della Tu es Petrus, della Benevola o della Tira corda, oppure potranno proporre una Messa nuova del Benevoli. In ballo c’è anche un salmo a 16 voci da scegliere fra il Laudate, il Dixit o il Confitebor; poi ancora il Dixit a 24 voci e un Magnificat a scelta fra quello a 14 voci, quello concertato a 8 oppure uno nuovo. D’ufficio entrano in repertorio i tre pezzi del Pitoni (Misericordia Domini a 4 voci, Beata es a 8 e Justorum animae a 8).
Intanto dagli Stati Uniti fa sapere (una delle improvvise bizzarrie) di aver cominciato le prove della Pastoralis con un gruppo di ragazzi di New York che subito ha battezzato Epiphany boys’ choir, concedendo a quattro di loro l’appartenenza onoraria al Coro del Concilio.[71]
Il ’59 si annuncia importante anche per una svolta che dovrebbe portare a una tranquilla esistenza, che però sfuma subito non appena intravista. Da anni Feininger cerca fonti di finanziamento per il Coro. I contributi pubblici trentini sono quelli che sono, con gli aiuti del Ministero del turismo e dello spettacolo si va poco lontano. Vende ogni tanto un’opera del padre, qualche xilografia, acquerelli e chine. Trento è la città della sua vita e vorrebbe lasciare un segno, non soltanto il Coro del Concilio, non soltanto l’ambizione di farne un centro di ricerca musicologia di respiro mondiale, ma anche la possibilità di legarla al nome del padre.
Arriva il 5 giugno 1959 in Consiglio comunale la delibera che propone l’acquisto di alcune opere del pittore Lyonel Feininger, un nome di fama mondiale (caposcuola del periodo di transizione fra il cubismo e il neorealismo, ricordato come uno dei Quattro Blu accanto a Klee, Kandinsky e Jawlenski, ed esponente di uno dei fondamentali movimenti culturali europei del primo dopoguerra, la Bauhaus di Weimar, scuola tedesca diretta dal 1919 al 1928 da Walter Gropius, che chiamò Lyonel come primo maestro). Costo complessivo 60 milioni di lire. Si tratta di quadri che il figlio, don Lorenzo, offre a un prezzo molto vantaggioso e il pagamento non è nemmeno richiesto in unica tranche, ma in rate annuali di tre milioni per 20 anni. Il ricavato, ovviamente, servirebbe per finanziare l’attività attuale e i grandi progetti futuri del Coro del Concilio. Una specie di vitalizio, insomma, con il quale far fronte agli impegni, il cui peso non poteva essere sopportato dai singoli cantori e, ovviamente, alla continua ricerca dei codici. Tra i progetti, inoltre, la costruzione di una colonia al mare.
Si tratta di quarantotto acquerelli (patrimonio privato esposto nella sede del Coro in vicolo Colico), disegni, chine e cinque olii (al momento parte di una mostra itinerante attraverso le maggiori città europee, opere già valutate 600.000 dollari) che sarebbero stati esposti in un una galleria d’arte, nella quale in un primo momento avrebbero trovato spazio anche i quadri di Umberto Poggioli, e che in seguito si sarebbe aperta ad altri grandi nomi della pittura trentina (Segantini, Garbari, Pancheri, Prati, Bezzi, Oddone Tomasi, ecc).
In aula però sorgono subito perplessità, benché sia generale la convinzione che si tratterebbe di un fondo destinato a dare grande prestigio, unico in Italia, utile anche per favorire il turismo culturale a Trento. Nessuno disconosce il valore di Feininger, ma la spesa – pur se contenuta rispetto al reale valore di mercato – sembra lo stesso eccessiva per la città, anche se dell’idea si era mostrata entusiasta una commissione di artisti trentini (i pittori Guido Polo, Remo Wolf, Carlo Bonacina e il critico d’arte Giulio Decarli). Il sindaco Nilo Piccoli sottolinea l’importanza dell’operazione, primo passo verso la creazione di una pinacoteca comunale la cui sede si sarebbe potuta ricavare nell’edificio che ospitava il Provveditorato agli studi, vale a dire l’attuale palazzo Geremia di via Belenzani, di fronte a palazzo Thun sede del municipio. I timori tuttavia arrivano da varie forze politiche. E la manutenzione futura – ci si chiede – non sarà un aggravio troppo pesante per i bilanci comunali? Alla fine tuttavia la delibera fu approvata con 28 voti favorevoli e 4 astensioni.
La decisione però ebbe vita breve. Giusto un mese dopo, il 10 luglio, la Giunta provinciale, presieduta dall’avv. Riccardo Rosa, rinvia la delibera al Consiglio comunale che avrebbe avuto 30 giorni di tempo per la presentazione di eventuali controdeduzioni. La spesa – viene sottolineato – è di natura facoltativa e quindi, in base alla legge comunale e provinciale 383 del 1934, inammissibile per il Comune di Trento. Si fa inoltre rilevare che l’onere finanziario previsto sarebbe andato a gravare in modo sensibile sui futuri bilanci e che comunque la durata ventennale non è prevista in base all’articolo 4 della legge regionale 32 del 1955.[72]
Un’occasione irripetibile andava così in fumo per la miopia di qualche amministratore. Una rinuncia che Trento non meritava, come sottolineò più tardi il critico Bruno Passamani, anche considerando che nel frattempo la città era diventata sede universitaria. Nel novembre 1961 alla galleria “L’Argentario” di Ines Fedrizzi e Gualtiero Giovannoni, due amici di grande sensibilità attenti al suo percorso culturale, fu allestita una retrospettiva con undici tele dell’artista, che però al termine della mostra presero altre direzioni e che oggi si trovano nelle collezioni private e nei più grandi musei del mondo. Qualche opera resta in galleria che purtroppo, dopo il trasloco in via Roma, è invasa dall’acqua dell’alluvione del 1966. E la melma ricopre ogni cosa.
Nel maggio 2007, finalmente, 48 anni dopo, una grande mostra al Mart di Rovereto dedicata al collezionismo trentino e italiano di Lyonel Feininger, con oltre 160 opere fra disegni, acquerelli, dipinti vari, un evento dentro il clima di revival che la musica di Benevoli vive a trent’anni dalla morte di suo figlio Lorenzo.
CAPITOLO IV | QUANDO CAMBIA LA CITTÀ
Cala la sera sul primo decennio. Gli anni Sessanta annunciano novità profonde nel pensiero giovanile e Trento si rimodella attorno alle aule dell’Università. Il Coro vive momenti di fatica mentre la città, prima dell’ondata del Sessantotto, percepisce – con l’inizio delle lezioni a sociologia nel ’62 – un cambio di orizzonte sociale e culturale. Nel fermento dei nuovi panorami l’ITC (Istituto trentino di cultura) e l’IRST (Istituto per la ricerca scientifica e tecnologica) diventano referenti del pensiero umanistico e scientifico e già si intravede il lontano cammino di Giurisprudenza e Lettere.
La città cresce in sapienza e intanto la politica cerca strade riformiste con il centro sinistra. L’orchestra Haydn, nata nel ’60, porta nella musica un respiro regionale, mentre un altro mondo musicale, quello delle bande, conosce anni pesanti con organici in crisi e cadute di qualità, ma subito riemerge con la creazione della Federazione dei Corpi bandistici in embrione dal 1961 e attiva con la prima presidenza di Gallo nel 1963.[73]
Sono questi anche gli anni della coralità alpina, in grande vitalità per il moltiplicarsi dei cori, con risultati di socializzazione tra giovani e adulti. Il Liceo musicale, altro palcoscenico di cultura, comincia dalle aule della Filarmonica, in via Verdi, l’iter per il riconoscimento statale prima di diventare Conservatorio.
E quella del Conservatorio sarà anche la strada che imboccherà qualche voce bianca uscita dal Coro degli anni Sessanta. Giuseppe Calliari, ad esempio, si diplomerà in viola e Stefano Bianchini in contrabbasso, mentre altri, come Filosi che sceglierà l’Accademia di Brera, si indirizzano verso vie artistiche, a dimostrare la valenza di un coro polifonico che fa musica fuori dagli schemi delle corali cittadine, che affronta nodi musicali sempre più complessi, che va alla ricerca di autori rari, ma che diventa anche motore di sensibilità culturale complessiva. Ed è rimasta inalterata, anzi è cresciuta, pur nel logorio degli anni, la sua capacità di studio e di espressione tutta giocata in un ambito dove appare molto labile il confine fra abilità artigianale e professionismo.
Proprio perché artigianale il canto del Coro del Concilio non solo ha compiuto il miracolo di risvegliare la simpatia popolare nei confronti della musica colta antica, ma ha aperto la strada ad altri gruppi professionisti che raccoglieranno in seguito la sua eredità.
Il Coro affronta però il decennio in un clima di stanchezza. Lorenzo Feininger lancia una nuova sfida, nel tentativo di scongiurare il declino e, come sempre aveva fatto, punta ancora più in alto. C’è il pericolo di perdersi? Bene, rilanciamo dando vita a due cori distinti di 48 elementi ciascuno, un organico ideale per coprire tutte le esigenze di repertorio: tre cantori per ogni parte quando si cantano brani a sedici voci, il minimo per garantire una perfetta intonazione secondo una legge fisico-vocale universalmente valida, e sei per ogni parte nei pezzi a otto voci. Del resto sono anni che il Coro vive su questi numeri fluttuando fra i quaranta e i cinquanta elementi ma Feininger, preso dall’euforia delle tante cose da fare, è convinto che l’unico modo per superare le difficoltà sia quello di fronteggiarle con altre difficoltà.
A infondere coraggio è servito sicuramente l’arrivo dall’America nel ’60 del primo disco (l’unico dei tre previsti), inciso con vecchie e nuove registrazioni. Mai lavoro era stato così sofferto, così tormentato. Sulla prima faccia è registrato il Misericordia Domini di Ottavio Pitoni a quattro voci, poi Kyrie e Gloria della Si Deus pro nobis di Benevoli, che continua sul retro con il Credo. Chiude la seconda faccia il Magnificat a otto voci di Benevoli.
È un 33 giri edito dalla Societas Universalis Sanctae Ceciliae, la vecchia casa editoriale e musicale fondata da Feininger assieme a mons. Respighi nel 1947 ma tenuta in piedi, fin dall’inizio, dal solo Feininger (la collana chiuderà con 135 titoli alla sua morte). Il disco è in vendita a circuito interno, 3 mila lire per i cantori e 5 mila per il pubblico.
Il Coro non parla più la lingua di un tempo. Ha cambiato fisionomia. Molti vecchi cantori hanno abbandonato e con i nuovi si avvia un altro dialogo, don Lorenzo li coinvolge nelle scelte, lancia concorsi fotografici per documentare tournée, chiede reportage sui viaggi. La presidenza viene gestita dall’interno. Al cav. Carlo Uez, presidente nel ’58, con Tito Ferroni alla vicepresidenza, subentra Renzo Pegoretti, tenore, e poi nell’autunno del ’63 Dario Lucin, un altro tenore. Gli appelli all’impegno, le informazioni sull’attività e sugli indirizzi artistici non hanno mai il sapore delle direttive imposte, ma si punta piuttosto sull’invito alla partecipazione. Dario Lucin, nel Coro dagli anni Cinquanta (uno dei sei fratelli, tutti coristi), sarà l’ultimo presidente, protagonista suo malgrado di un momento non troppo fortunato.
Intanto anche il vecchio Benevoli si prende un po’ di relax. È tanta la mole di musica che Feininger ha raccolto e catalogato in tutti questi anni che la tentazione di spaziare diventa parte di un disegno universale che abbraccia stili e autori diversi.
Se si fa eccezione per la Messa L’homme armè a 4 voci di Guillaume Du Fay, un compositore fiammingo del Quattrocento, primo grande amore musicale di Feininger, studiata nell’estate del 1952 durante il campo estivo di Fierozzo, e per Giuseppe Ottavio Pitoni (1657-1743) affrontato nel ’58 con un brano a 4 voci e uno a 8, Orazio Benevoli ha tenuto banco per un lungo decennio assorbendo tutte le energie possibili. Quattro messe a sedici voci, un anno intero per imparare la Tu es Petrus, meno di sei mesi per la Benevola, poche settimane per mettere in piedi la Tira Corda e poi la Si deus pro nobis. E ancora un Laudate a sedici voci, tre Magnificat a otto, un Dixit a otto, uno a sedici e uno a ventiquattro voci e infine una quinta Messa, la Missa Pastoralis a otto voci.
Nelle Messe, lavori colossali non soltanto per l’intreccio vocale ma anche per i tempi di esecuzione e quindi per l’impegno prolungato, fisico e di concentrazione, le sedici voci sono pressoché continue, salvo qualche passo interno come il Christe nella Benevola che si canta a otto voci (quattro soprani, tre contralti, un tenore) o come il Crucifixus piuttosto difficile (all’interno del Credo) con quattro soprani soli. Ma esercizi di abilità li impone anche il Magnificat concertato, dove al pieno delle quattordici voci si alternano brevi passi a due soprani e un basso o a due soprani soltanto.
Con un programma dove per la prima volta non compare il nome di Benevoli, il Coro canta al Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma nel gennaio 1961, portando Pompeo Cannicciari (1670-1744), maestro di cappella a Santa Maria Maggiore a Roma, e Giovanni Giorgi (seconda metà del 1600 – 1762), maestro di cappella in San Giovanni in Laterano. Sono due compositori della scuola del Benevoli. Feininger li ripropone nella loro città a interlocutori che non sono più quelli di un tempo: c’è mons. Angles a presiedere l’Istituto pontificio, mentre mons. Bartolucci ha preso il posto che fu di Lorenzo Perosi alla direzione della Cappella Sistina e mons. Romita è segretario dell’Accademia Santa Cecilia, tutti protagonisti del mondo romano, ai quali non sfugge il valore e la preziosità dello sforzo musicale di una lontana città del Nord, capace di riportare alla luce secoli di musica sacra per molto tempo oscurata dalla musica profana. Ma bisognerà aspettare quasi quattro anni per leggere qualcosa di nuovo nella vita di questo coro che fatica a vivere con un organico unico, figurarsi diviso in due.
C’è un bivio esistenziale nell’inverno 1963. “Reduce da varie campagne sfortunate, reso inattivo e alquanto instabile fra tradimenti e discordie interne”, si legge nelle carte d’archivio, il Coro del Concilio ritrova ancora una volta la forza e il coraggio di rialzarsi. Feininger ha lavorato in silenzio dopo il concerto di Roma del ’61 e nell’estate del ’64 corona uno dei sogni della sua vita, l’apertura della casa di montagna, Villa Benevola, a Folgaria sulla strada per Costa. Ha ristrutturato un vecchio mulino a tre piani, camere e sala prove, una cappella nel sottotetto, intorno un giardino.
Nel verde, che spegne i lontani vapori della valle, il Coro mette ordine nella propria vita. Da cinque anni non si muove dall’Italia, da tre non fa concerti di un certo impegno. È tempo di pensare a qualche uscita. C’è sempre Bad Tölz ad accoglierlo, con la cittadina della Baviera esiste un buon rapporto. Siegfried Gmeinwieser, un giovane musicologo tedesco oggi professore emerito dell’Università di Regensburg, e Lorenzo Feininger si scrivono continuamente. Feininger tiene aggiornato il collega sui programmi e sui progressi. Nel ’63 gli ha annunciato lo studio di due salmi a sedici voci (non si sa quali) e il Portas Coeli. E poi si stanno preparando le voci soliste della Messa del Benevoli In augusta pestilentiae. Nel ’64 invece si lavora sul Confitebor, sempre Benevoli, con un ragazzo per voce. Feininger ha completato anche il catalogo di Giovanni Giorgi e lavora a quello del Cannicciari. I ritmi restano sempre elevati.
Il Coro ha abbandonato la divisa dei Pueri Cantores e indossa ora calzoni e maglione blu (in un primo momento Feininger aveva pensato a calzoni, camicia bianca e cravatta rosso bordeaux). Così vestiti i ragazzi vanno in tournée nell’estate del ’64. Il viaggio ha un significato preciso, maturato nel lungo inverno: continuare a vivere o lasciarsi morire. Per questo la trasferta è preparata con tanta cura. Su un pullman di gran turismo sale una quarantina di cantori accompagnati dal maestro Mazzonelli, padre di Diego cantore della prima generazione, mentre don Lorenzo segue in macchina. Quasi nuovo di patente, ottenuta da cinquantenne, è affascinato dalla velocità che purtroppo in seguito gli costerà la vita. La sua macchina è un’Alfa 1900 a sei carburatori, che cambierà poi con un’Alfa sprint 2600. L’ultima sarà un’Alfasud. Il tempo gli è diventato così prezioso che le corse da Trento a Monaco o a Roma o dove decide da un minuto all’altro di andare sono ormai una parte fondamentale della giornata. In macchina trascrive mentalmente musica, legge infinite partiture, vede i soprani quarti in difficoltà, pensa a rinforzare questo o quest’altro gruppo. Le volute della strada sono però ben più difficili di un testo a sedici voci che mette tutte le cose al loro posto naturale. Don Lorenzo confessa anche il piacere dei record. E proprio un cantore di quegli anni ricorda che si vantava di salire da Trento a Folgaria in un tempo da brivido.
Il ritorno in Austria e in Baviera è una buona spinta. Il Coro ha ritrovato la vecchia vena. Un concerto a Klagenfurt (in cattedrale), due a Vienna (in Santo Stefano e dai Minoriti, la chiesa degli italiani in Austria), a Salisburgo nella Collegiata e a Bad Tölz nella chiesa dei Francescani.
Salutandosi a Trento il 13 luglio 1964 al rientro dal viaggio – Feininger parte subito per gli Stati Uniti – i cantori si danno appuntamento il 25 ottobre (magari qualche giorno prima per le prove) per un concerto a Centa.
Oggi Dario Lucin, all’epoca presidente, ricorda il percorso nervoso di quegli anni, un percorso mai disteso, sempre alti e bassi. “Il Coro – scriveva sulle pagine di Voci Bianche – sta vivendo nella mediocrità e la mediocrità contraddistingue il nostro impegno di lavoro”. Ad ogni delusione però si ripartiva e ogni volta le promesse erano solenni. Viene ribadito che è importante farsi conoscere nella propria città, poi nella propria regione e magari anche fuori. E dopo i clamori lontani del Giubileo il Coro riparte umilmente da Centa per un concerto d’autunno. Quindi il trionfo di Oderzo, dove presenta cinque brani di Giovanni Giorgi a quattro e otto voci e chiude con il Laudate di Benevoli a sedici voci. In un diario della giornata Giovanni Agostini ricorda che “l’emozione fu tale che i contralti primi restarono muti ad un attacco del direttore, ma il concerto continuò ugualmente fra gli applausi del pubblico nel duomo di tipo romano con il tetto di legno”.
Dunque Benevoli. I vecchi chiedono di recuperare il più prestigioso degli autori che hanno fatto la storia del Coro. Andiamoci piano – dicono – con il nuovo repertorio. Si lavora per mesi su un pezzo difficile e intanto si dimenticano i vecchi brani.
Siamo ancora nel ’64 quando Feininger scrive a Gmeinwieser: “sto rischiando un crollo nervoso, andrò in America dove mi aspettano sei settimane di riposo”. Ma gli resta il legame con Trento, le lunghe vacanze di studio e di prove a Villa Benevola, luogo ideale per dominare dall’alto dei boschi i secoli della musica più bella del mondo. E poi c’è la casa al mare, la pensione Benevola nella Pineta di Bibione, che vede la luce in questi anni, quattro palazzine, una per coro attorno a un corpo centrale, quasi una versione di fantasia dell’antica visione di Orazio Benevoli che aveva ideato i quattro cori delle sue Messe in modo che si potessero disporre – così diceva don Lorenzo – attorno a un punto centrale, nel cono di luce della cupola del Michelangelo, centro acustico ideale.
Il Coro vive un periodo di gaia fanciullezza. “Malandrino, perché non sei venuto a prove?” fa don Lorenzo a chi è mancato la sera prima, l’indice della mano destra puntato verso il ragazzo. Non sembra più il direttore di una volta, il carattere si è piegato agli angoli, accetta anche l’interruzione di una prova quando si accorge che un piccolo ragno sta scendendo dal soffitto lungo la sua bava, in corda doppia. Ferma la prova e sposta l’armonium perché anche la vita di un insetto va rispettata. Nella sala prove di vicolo Colico ha sistemato un calcetto e un biliardino, monopoli e altri giochi. Va bene il Benevoli, ma c’è anche altro nella vita. Dagli orari però non si sgarra e così quando si riparte in pullman dopo una sosta di sei minuti, non uno di più non uno di meno, “chi c’è c’è – sentenzia – gli altri ci guardino dietro”. E sa anche rimandare tutti a casa interrompendo dalla sera alla mattina un campeggio per troppa indisciplina, “però arrangiatevi con le corriere”. Riceverà poi il ringraziamento di un padre per aver fatto di suo figlio un “militare”, costringendolo a soli nove anni a far tutto da solo. È però sempre pronto, dovendo scendere a Trento dai paesi di vacanza, a dare un passaggio a qualche cantore che vuole fare un salto a casa e chiude la portiera dicendo “che Dio ce la mandi buona”.
Quando entra l’ultima generazione, nei primi anni Sessanta, il Coro ha già consumato un bel po’ della sua esistenza. Dei vecchi non è rimasto nessuno, a parte Ernesto Gezzele, a tenere alta la bandiera dei fondatori. Lo studio, il lavoro, gli anni che passano e le scelte della vita hanno dato un altro volto al Coro del Concilio. Le ultime forze sono quelle di Giovanni Agostini, detto Topolino, Gianni Falci, Sandro Cjan, Renzo Biotti, Maurizio Gretter, soprano IV, nato nel ’52 e morto nell’84 rincorrendo i suoi ideali.
La vita corre però come se ci fosse la sensazione di qualcosa che da un momento all’altro può dissolversi nel nulla. L’urgenza di affrontare nuove partiture diventa affanno e l’affanno toglie forza di programmazione. Molte prove e pochi concerti. L’Isola di San Giorgio a Venezia è l’unica meta del 1965. In cinque mesi di lavoro il Coro ha preparato un Magnificat, anzi “un po’ di Magnificat” come si legge su Voci Bianche.
La giornata di Venezia (viaggio in littorina una domenica di maggio) è ricordata nel diario di un soprano quindicenne: “avanti addormentarmi, la sera prima, pensavo a quel viaggio e anche alla speranza di riuscire bene nel nostro dovere di cantare”. E poi: “il viaggio era allegro, un po’ si chiacchierava, poi si osservava il paesaggio e certi di nascosto mangiavano e questo mangiare continuamente non era consigliabile per loro perché poteva recar loro danno”. Quindi l’emozione nel vedere le prime navi: “il nostro cuore batteva nel vedere questa famosa città, ed ecco che si alzò un grido di gioia dal treno dicendo Venezia, Venezia”.
La città accoglie le note della Benevola durante la Messa sull’isola e nel pomeriggio quelle di Tozzi e Giorgi in concerto. Il successo è tale che don Siro Cisilino, che lavora indefessamente alla “Fondazione Cini” trascrivendo polifonia vocale, propone a Feininger di trasferire il Coro del Concilio a Venezia. Don Lorenzo obietta che l’idea è impraticabile, perché tutti hanno una famiglia. Don Cisilino insiste proponendo anche il trasferimento di tutte le famiglie: avrebbe pensato lui a trovare un lavoro a tutti i papà dei coristi. Il Coro è ritornato alle fatiche di un tempo, due esecuzioni in una sola giornata cominciata alle sei del mattino e conclusa a notte avanzata. Tozzi e Giorgi hanno rinforzato il repertorio in vista della breve tournée del ’66 in Germania (un concerto a Monaco il 24 luglio, uno a Salisburgo il 25, presente l’Arcivescovo), mentre la Messa Victoria di Benevoli farà il giro delle cattedrali di Francia nell’estate del ’67, cinque concerti a Bourges, Beauvais, Laon, Reims e Strasburgo. Quarantacinque cantori in tutto a dividersi il peso delle partiture. Superato lo sconforto dell’inverno 63, il Coro sembra dunque aver ritrovato la strada di sempre, ma tutto intorno sta cambiando. L’alluvione del novembre ’66 sconvolge la città e il Sessantotto è alle porte.
È un vento nuovo, una folata improvvisa che solleva vecchie abitudini e scompiglia le idee. Un ritmo diverso fa accelerare la tranquilla vita di provincia e da via Verdi, dove l’Università muove con cipiglio i primi passi, si diffondono sogni e proteste, speranze e contestazioni. Niente è più come prima e i giovani prendono il mondo nelle mani. La nostra città – scrive la Direzione del Coro su una circolare – rimane insensibile alle manifestazioni artistiche e culturali, “soprattutto le nuove generazioni che hanno ben altre problematiche”.
In realtà la spinta culturale non manca, ma in quel momento diventa sorella minore della politica:
Eppure il Coro del Concilio, esecutore della pregiata musica seicentesca benevoliana determina un basilare aspetto culturale della musica polifonica in Italia, ma questo sembra non interessare la popolazione e crediamo che la motivazione sia duplice: insensibilità per l’espressione musicale e mancata credenza di avere nella cittadina un coro di tale importanza.
Ciò nonostante c’è la volontà precisa, pur negli alti e bassi delle disillusioni, di andare avanti, nonostante sia “tanto difficile togliere una tradizione, quanto arduo imprimerne un’altra”. La considerazione, del resto, non vale solo per i trentini ma per l’umanità in genere.
Vengono allora avanzate alcune proposte, a partire dall’offerta di un’educazione musicale a chi non ha potuto avere nemmeno i primi rudimenti. Non ci si ferma tuttavia alla sola musica, chi avesse disposizione particolare per la letteratura potrebbe inviare alla direzione i testi oppure i quadri che saranno valutati opportunamente e nel frattempo il Coro dovrebbe continuare per la strada antica, preoccupandosi di diventare esso stesso uno “stimolo intellettivo”.
Intanto, il 1° ottobre del ’68, viene emesso un bando di concorso per voci bianche rivolto agli alunni delle classi IV e V maschili delle scuole elementari cittadine e, in casi eccezionali, anche ai bambini delle prime classi. Sono disponibili 12 posti per soprani e 12 per contralti. Ovviamente gli aspiranti dovranno avere “inclinazione per la musica, buona voce (non da solista) e buon orecchio, condotta esemplare, impegno costante nelle lezioni di teoria musicale e nelle prove con esercizi vocali e insegnamento delle parti da concerto”. Però non basta, è necessario infatti che i vincitori del concorso presentino un consenso scritto della famiglia che dovrà impegnarsi a una consapevole collaborazione con la direzione del Coro. Il periodo di prova è di tre mesi e solo in caso di giudizio positivo il ragazzo potrà ricevere la tessera di cantore effettivo.
I princìpi, la disciplina, le regole, la severità di don Lorenzo restano quelle di sempre, ma i tempi sono cambiati e si respira un’aria che, se non è ancora di insofferenza alla disciplina, è tuttavia di richiesta d’una libertà maggiore e di attenzione a una pluralità di interessi e di sollecitazioni che diluisce l’assiduità a un progetto unico. E il presidente Dario Lucin commenta pragmaticamente: “il nostro impegno diventa proficuo soltanto quando c’è in vista e a breve distanza un concerto, meglio ancora se è un viaggio-concerto, mentre non si progredisce nella nostra preparazione corale (a volte anzi si nota regresso) durante mesi e mesi di prove singole e generali”. La costanza e l’entusiasmo, insomma, stanno diventando un ricordo dei primi anni, mentre adesso pare che si punti solo al traguardo immediato. Del resto quelli erano tempi eroici, svaghi limitati, disciplina respirata in casa. Poi l’Università aveva portato studenti e professori da varie regioni italiane, Trento li aveva accolti con sospetto, troppo rumore, troppi dibattiti, troppa sociologia e forse troppi sogni. Scelte a rischio ma coraggiose, che danno una marcia in più alla vita quotidiana. Arrivano grossi nomi, da Francesco Alberoni a Nino Andreatta, da Norberto Bobbio a Pietro Scoppola. E insieme allo svecchiamento generale anche l’economia comincia a cambiar volto, mutano le esigenze, la cultura prende strade più ardite e in seguito più rivoluzionarie. I giovani, in questa situazione, sono i primi a ribellarsi ai valori dominanti e alle costrizioni. Evidente che anche fra i più piccoli si avverta che qualcosa sta cambiando e l’insofferenza alle regole comincia a serpeggiare, nonostante i richiami delle famiglie ancora legate a un’educazione ricevuta e trasmessa sull’onda dell’autorità condivisa, se non anche dell’autoritarismo accettato.
La fibrillazione della città si trasmette ad ogni sua componente e il Coro del Concilio non ne è esente. Don Feininger, per sua formazione e temperamento, soffre gli eventi, ogni volta riacciuffa il progetto che sta per sfuggirgli di mano e i grandi traguardi, le emozioni, i trionfi, le conquiste, le imprese impossibili sono impresse in un diario mai scritto e già vissuto. Lui che era approdato al cattolicesimo glorificato da una Chiesa austera, dove la parola latina e la musica sacra affondavano radici nella cultura antica, assiste quasi con smarrimento ai cambiamenti imposti dal Concilio Vaticano II, anche se la costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra liturgia dispone grandi aperture nella direzione a lui cara come quella, ad esempio, che riconosce il canto gregoriano come proprio nella liturgia romana. Così come non esclude affatto, nella celebrazione dei divini uffici, gli altri generi di musica sacra e specialmente la polifonia.
Ed ecco allora l’ultimo guizzo di vitalità con l’invenzione del concorso per musica polifonica. Si procede ad elastico, momenti di euforia e momenti di scoramento in un contesto che sta cambiando troppo in fretta. La città ha altre cose cui pensare. Si verificano incidenti nelle strade del centro quando, il 3 novembre ’68, arriva il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat per celebrare il Cinquantenario della Liberazione, i sit-in sono all’ordine del giorno, gli esami vengono superati col voto politico, operai e studenti mettono insieme esperienze diverse per obiettivi comuni, che sono soprattutto libertà e giustizia. Nelle chiese si assiste alla Messa beat accompagnata dalle chitarre elettriche e d’estate al lido di San Cristoforo i ragazzi ballano il rock and roll. E mentre Lucin denuncia che “da anni il Coro sta vivendo nella mediocrità ed è triste constatare che manca quel pizzico di buona volontà che ci porterebbe immediatamente ad un altro livello di esecuzione musicale”, l’uomo è già sbarcato sulla Luna. Forse è troppo tardi per ricominciare. E anche nella Chiesa si sono manifestati grandi cambiamenti e non sono mancate le tensioni. I solenni pronunciamenti presenti nei documenti del Concilio Vaticano II, in particolare il sesto capitolo della costituzione Sacrosanctum Concilium, dedicato alla musica sacra,[74] furono disattesi nella prassi liturgica post conciliare e anche in Trentino l’uso del latino fu quasi dovunque abbandonato, in pochi anni quasi tutti i cori parrocchiali si sciolsero e non si udì più nelle chiese né gregoriano né polifonia in latino. Il tutto, si disse, per essere più vicini alla gente, per parlare e cantare in maniera più comprensibile al popolo di Dio. In realtà, però, nella Sacrosantum Concilium si afferma che
36. L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini.
112. La tradizione musicale della Chiesa costituisce un patrimonio d’inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne.
116. La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale.
Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell’azione liturgica.
Era un punto a favore di Feininger che soffrì molto dei cambiamenti ai quali non pensò mai di assoggettarsi. E qualche anno più tardi uscì una istruzione sulla musica sacra nella liturgia. La Congregazione dei Riti ammetteva che erano sorte alcune confusioni e che si rendeva dunque necessario chiarire. In particolare l’Istruzione Musicam sacram del 5 marzo 1967 ribadiva il ruolo eminente del canto gregoriano e della polifonia e affermava anzi che il gregoriano deve essere usato il più possibile.[75] Il latino, inoltre, doveva essere mantenuto per la celebrazione dell’Ufficio divino da parte del clero.
Ma già don Lorenzo, nel novembre del 1970, inviava una lettera aperta a monsignor Gottardi, arcivescovo di Trento, firmandosi sac. Laurentius Feininger. Tanto per mettere subito in chiaro la sua posizione.
Ella – scrive – è a conoscenza da molto tempo del mio pensiero in materia di fede, tradizione, liturgia; e allora le comunico chiaro e tondo che io celebro la S. Messa quotidianamente in latino e nella forma preconciliare, cioè con tutte le genuflessioni, segni di Croce e baci dell’altare, nonché rivolto verso Dio, così come la celebrò San Giovanni Bosco.
E ancora per non prestare il fianco ad equivoci:
Lo faccio NON in protesta o contestazione della nuova liturgia – che non supera il livello del musichiere della TV – ma in riparazione pubblica degli oltraggi di irriverenza e di disprezzo di ogni espressione di pietà e di dovuta riverenza verso il Sommo Sacramento, quali si manifestano in questa nuova liturgia.
Feininger continua poi nell’affondo sottolineando ancora di ritenere uno sbaglio grave il voler aggiornare l’insegnamento e la dottrina cattolica negando tradizione e autorità e “democratizzando” tutto, dal momento che i giovani hanno bisogno – secondo lui – di una “Chiesa basata sulla pietra e non di una barchetta traballante in alto mare, così come l’ha fatta diventare questo sistema progressista”. E infine la proposta al Vescovo: “a Lei io propongo di contrapporre all’Isolotto di Firenze la terraferma di Trento”.[76]
D’altra parte proprio quel tipo di musica e di liturgia aveva avuto un ruolo fondamentale nella sua scelta di vita, se egli stesso dichiara di “essersi convertito dal nulla alla Chiesa Cattolica”. Ma oggi in queste condizioni – assicura – “né mi convertirei né diventerei sacerdote. Tuttavia quello che sono diventato, cattolico sotto i nazisti nel 1934, sacerdote nella baraonda del 1947, intendo rimanerlo. Anche nella baraonda di oggi”. E nel caso non gli fosse più permesso di celebrare in latino, avrebbe celebrato in casa senza chiedere parere o permesso a nessuno. Lo stesso vale per il Coro, fa sapere nell’aprile del 1970: “finchè non si deciderà di sopprimerlo o di minacciare la scomunica ai miei ragazzi io continuerò”. Di fatto però, aggiunge sconsolato, esiste già una specie di scomunica perché “siamo cattolici, non ecumenici, siamo tradizionalisti, non progressisti, siamo nemici irriconciliabili del comunismo, amiamo la giustizia e odiamo la falsità”. In sintesi, la nuova liturgia e la Chiesa cattolica progressista sono ritenute da Feininger “la caricatura di quello che ho abbracciato”.
Il prof. Guido Milanese aveva abbozzato una sceneggiatura in occasione dei vent’anni dalla morte di don Lorenzo.[77] Due i personaggi: il Maestro, direttore di un concerto in auditorium prima e in chiesa all’organo poi, e un Pensoso Signore, il quale si meraviglia molto per aver assistito a una Messa in gregoriano. Pretesto, ovviamente, per mettere a punto certe osservazioni e per sottolineare la differenza fra la lettera e lo spirito del Concilio. Una analisi in proposito si ebbe dall’allora cardinale Ratzinger, prefetto della “Congregazione per la dottrina della fede”, nella prefazione al libro Conversi ad Dominum. Zu Geschichte und Teologie der christlichen Gebetsrichtung di Uwe Michael Lang,[78] in cui scriveva come due appaiano i risultati più evidenti della riforma liturgica del Concilio Vaticano II: la scomparsa della lingua latina e l’altare orientato verso il popolo, ma “chi legge i testi conciliari potrà constatare con stupore che né l’ una né l’ altra cosa si trovano in essi in questa forma”. Pertanto, commentava Ratzinger, bollare frettolosamente certe posizioni come preconciliari e reazionarie, oppure progressiste o estranee alla fede, non dovrebbe più essere ammesso nel confronto, che dovrebbe piuttosto lasciare spazio ad un nuovo comune impegno “di compiere la volontà di Cristo nel miglior modo possibile”.
Da parte sua Papa Giovanni XXIII, nella Costituzione Apostolica Veterum Sapientia raccomandava alla Chiesa di conservare e anzi di intensificare l’uso del latino non solo nella liturgia, ma anche nell’insegnamento presso i Seminari e le Università pontificie.
Anche la “Congregazione per l’Educazione Cattolica” in un documento affermava che il Concilio era ben lontano dall’aver bandito il latino, anzi “la sua esclusione sistematica è un abuso non meno condannabile della volontà sistematica di alcuni di mantenerlo esclusivamente”. Anche Lorenzo Feininger si trovava su questa linea e per questo non poche volte venne definito conservatore. Ma era in buona compagnia. Tra i vari interventi, pure quello della Consociatio Internationalis Musicae Sacrae, che aveva dedicato un congresso al problema della reintroduzione del canto gregoriano nella pratica liturgica. La “Congregazione per il Culto Divino” scrisse una lettera d’appoggio all’iniziativa.
Feininger aveva studiato profondamente tutte queste cose. E proprio lui, che si era fatto prete cattolico anche grazie all’influenza spirituale della musica sacra, ne soffriva molto perché si sentiva un isolato e in molte occasioni quasi sotto accusa. C’era tuttavia chi la pensava come lui a rassicurarlo. Dopo un’udienza da Papa Paolo VI nel 1965 monsignor Anglès, preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra, gli scrisse fiducioso, affermando di essere stato ampiamente rassicurato in merito al futuro del latino e della musica sacra. Notizia che aveva illuso anche il Cardinal Siri, Arcivescovo di Genova, al quale pure era stata affibbiata l’etichetta di anticonciliare. Ma alla fine non se ne fece nulla. La Chiesa continuò per la sua strada e don Lorenzo pure, in una convivenza difficile di tolleranza.
A Trento si moltiplicano gli interventi contrari e quelli favorevoli alla sua battaglia. Polemica dura. Non rischiamo forse – contesta qualcuno – di confondere un discorso di fede con uno di cultura? Viceversa Albino Turra, insegnante di organo e composizione organistica al Liceo musicale di Trento, nel marzo del ’69 invia una lettera al direttore del settimanale della Curia Vita trentina dichiarando l’insoddisfazione anche di tanti giovani di fronte all’attuale presentazione della Messa dal punto di vista musicale. Non vanno bene – dice – gli atteggiamenti presi in questi ultimi anni dall’impostazione liturgico-musicale diocesana “secondo un’interpretazione monopolizzata delle disposizioni conciliari. Succede così che chi esprime un’opinione contraria o anche solo qualche perplessità è ritenuto contrario alla riforma e contrario al Concilio”. Ne viene che “si vanno diffondendo musiche stucchevoli, decisamente brutte col pretesto fasullo che alla Chiesa più che l’arte interessa la pastorale e che la Messa non è occasione per sentire musica”.
Nella diocesi il canto gregoriano era di fatto proibito. Lo era indirettamente perché si valeva della lingua latina. E tuttavia la CEI afferma che “la dignità e la sacralità della celebrazione esigono che anche la musica sia degna e sacra, musica che non si perda in motivetto, il canto deve favorire la preghiera e non ostacolarla, ma troppi abusi ci sono stati al riguardo e con la scusa di rendere musicalmente più viva e accetta ai giovani la liturgia se ne è profanata l’espressione sacra”.
Intanto il cardinale Ratzinger è diventato papa Benedetto XVI. Nel luglio 2007 firma il “Motu proprio” sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970. È infondato – assicura – il timore che venga intaccata l’autorità del Concilio Vaticano II e che venga messa in dubbio la riforma liturgica: “il Messale pubblicato da Paolo VI e poi riedito da Giovanni Paolo II è e rimane la forma ordinaria della liturgia eucaristica”. L’ultima stesura del Missale Romanum, anteriore al Concilio, pubblicato con l’autorità di Giovanni XXIII nel 1962 e utilizzata durante il Concilio, potrà invece essere usata come forma extraordinaria della celebrazione liturgica. Non si tratta insomma di due riti, ma di un uso duplice dell’unico e medesimo rito. Il nuovo Messale, invece, talvolta venne inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, che portò spesso a deformazioni della liturgia “al limite del sopportabile”.
“Parlo per esperienza – fa notare papa Ratzinger – perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni e ho visto quanto profondamente siano state ferite dalle deformazioni arbitrarie della liturgia persone totalmente radicate nella fede della Chiesa”.
Certamente Feininger era una di queste. E probabilmente avrebbe partecipato alla nuova disputa, schierandosi totalmente con i sostenitori del “Motu proprio”. Oggi come ieri favorevoli e contrari. Don Vittorio Cristelli, già direttore di Vita trentina, interpreta ad esempio il ricorso del Papa alla propria personale iniziativa come dimostrazione che nemmeno dentro l’ambiente vaticano sono tutti d’accordo. Malumori esistono, è evidente, anche se il Papa insiste sul fatto che con ciò non viene affatto intaccata l’autorità del Concilio. Sia Cristelli che don Ivan Maffeis, attuale direttore di Vita trentina sostengono che in fondo il problema non è tanto la Messa in latino, il problema è che il ritorno alla vecchia forma liturgica venga interpretato come un passo indietro, simbolo di un tradizionalismo immobile.
A fronte di chi esulta per la possibilità di un ritorno al passato, la perplessità di chi intravede il pericolo della ricostruzione del muro che separava il prete dal popolo. Adesso come allora. Con gioia invece sarebbe stato accolto da don Lorenzo l’intervento di don Piero Rattin del luglio 2007, che ricalca in buona parte concetti da lui sempre sostenuti. Rattin, a commento di un viaggio in Francia dove aveva assistito a una Messa celebrata in latino, riporta un’ottima impressione del clima di attenzione e di devozione respirato, un clima non compromesso “dall’incomprensione di certi gesti o dall’uso del latino che per molti è senz’altro astruso. Certe nostre Messe – conclude – troppe volte assomigliano a uno show”. E apprezza il fatto che il Papa abbia ufficializzato il consenso a celebrare secondo il Messale di Pio V “se questo favorisce l’unità tra le varie componenti della Chiesa”. D’accordo con Ratzinger nell’affermare che “la bellezza della liturgia non è un fattore decorativo dell’azione liturgica, ma ne è un elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione”.
La storia del Coro cala in una sera del 1970 sull’ultima battuta della Missa Bruxellensis. Sono passati 21 anni dal suo timido apparire nell’ottobre del ’49. Danilo Curti annuncia dalle pagine del giornalino il “maestoso ritorno di Benevoli” con una Messa concertata – era l’ultimo guizzo di don Lorenzo – a otto voci e quattro gruppi di strumenti, quattro trombe e timpani, quattro violini, due cornetti, quattro tromboni più il basso continuo sostenuto dall’organo e da un violoncello. Un lavoro che Benevoli cominciò a comporre per la consacrazione di San Pietro. Feininger immagina quanto sarebbe bello farsi accompagnare dall’Orchestra Haydn, ma commette l’errore di non prendere contatti ufficiali. Ne parla soltanto con alcuni musicisti che gli rispondono “sì, si può fare, ma quanto ci guadagniamo?”. Deluso lo riferisce ai ragazzi durante una delle ultime prove, nell’inverno 1969/1970, e insieme decidono di lasciar perdere. La vita del Coro è allo stremo ma c’è sotto sotto la speranza di ritrovare la forza, festeggiando i vent’anni di vita, per andare avanti. Nell’estate del ’69 il Coro aveva fatto un viaggio in Austria per registrare nel duomo di Salisburgo una Messa del Giorgi. È il 16 luglio. In una foto di gruppo, con Lorenzo Feininger in clergymen, si contano ventotto cantori. Molti ragazzi, i vecchi Toniolli e Gezzele, il maestro Forti. Nessuno lo sa, ma è l’ultimo concerto del Coro. Giovanni Agostini ricorda le parole di don Lorenzo quando si sentono al telefono per concordare una prova. Non ci sono più prove – gli risponde – il Coro ha finito. È il novembre, forse il dicembre del ’70. Don Lorenzo parte per gli Stati Uniti. Scrive a Danilo Curti il 23 marzo 1971 per avvertirlo che sarebbe arrivato a Milano con un volo diretto da Boston. Lì il tempo è bellissimo, fa freddo senza neve, poco sopra lo zero:
Spero di non trovare nebbia, comunque in un verso o nell’altro arriverò. Sinceramente – aggiunge – non credo di riprendere il lavoro con il Coro, non me la sento e non credo che valga la pena di sforzare la cosa per poi vedere, dopo poco tempo, che proprio non valeva la pena. Accontentiamoci del passato e cerchiamo piuttosto di raccogliere i ricordi e i documenti di questo nostro passato e di pubblicare la storia.
È cambiato il panorama, non c’è più il latino, e che ci sta a fare un coro che canta in latino una musica che non trova più casa? Feininger non se la sente di attraversare il deserto.
Per cinque anni vivrà in città la vita dello studioso. Sa di aver perso una battaglia importante, ma proprio esaurendosi per logoramento il Coro ha dato la misura di una forza impensata: non ce l’ha fatta a sopravvivere a progetti sempre più alti, a mete sempre più ambiziose, è andato in superallenamento, come si direbbe di un atleta. Ma i segni di smisurate capacità non vanno dispersi. Feininger lavora in questo breve, ultimo capitolo della sua esistenza per mettere ordine al lavoro di tanti anni e combattere l’ultima battaglia, la più disperata, contro il degrado della cultura, buttandosi nel salvataggio dei codici e delle edizioni che tramandavano il canto cristiano liturgico – il gregoriano – quasi abbandonato dopo il Concilio Vaticano II, ciò che faciliterà la dispersione di decine, centinaia di volumi di pregio, la distruzione di manoscritti, lo smembramento di altri i cui resti, in fogli sparsi, si potranno poi ritrovare sulle bancarelle dei libri usati o nei negozi degli antiquari. E proprio l’encomiabile campagna di salvaguardia dei testi antichi lo ingarbuglierà in una vicenda dalla quale uscirà in maniera trasparente come in maniera trasparente vi era peraltro entrato. Avendo infatti acquistato una serie di pagine miniate di un antifonario di Liberale da Verona dai frati francescani del convento di Monte Oliveto, viene coinvolto in un processo nel momento in cui decide di metterle all’asta a Londra dopo averne accertato, da musicologo, il modesto valore musicale a fronte del notevole significato estetico. Sono momenti in cui dalle sacrestie esce di tutto, gli antiquari fanno man bassa, molte opere vengono letteralmente distrutte, altre finiscono nei mercatini. L’unico modo per salvarle è l’acquisto. Solo che i frati non possono vendere. Nell’aula del tribunale, a Siena, Feininger – difeso dall’avv. Ennio Russolo – entra per pochi minuti, quel tanto da chiarire il suo pensiero e l’accusa di incauto acquisto viene subito a cadere.
Trascorrerà infine le lunghe giornate un po’ a Trento, nell’appartamento di via Matteotti, un po’ nella casa di Folgaria con il conforto degli amici. Si sposterà da una chiesa all’altra cercando dove poter dire Messa in latino: via da San Francesco Saverio, via da Santa Annunziata, gli resta alla fine la chiesetta delle suore di piazza Bellesini e l’abitazione di via Matteotti.
La sua vita però si spegne, cinque anni dopo la fine del Coro, in un pomeriggio piovoso del 1976. La sera precedente era stato ospite di Ines Fedrizzi e Gualtiero Giovannoni, avevano parlato come sempre in grande serenità, avevano sorseggiato una bottiglia di Chianti. Ci vediamo presto, si erano salutati. E per il ritorno aveva già segnato sull’agenda l’invito a cena dai Paoli, a Campotrentino. Lo hanno aspettato. Il 7 gennaio stava scendendo in autostrada da Monaco dove aveva lasciato Danilo Curti a portare avanti studi di tedesco e di inglese. È volato con la sua Alfasud oltre il guardrail lungo il viadotto, poco prima di Vipiteno. Il mondo musicale rimane attonito e nemmeno i suoi amici riuscivano a crederci. Aveva sessantasei anni. Ma per i cento e cento cantori che con lui hanno condiviso la lunga avventura, lui se ne sta sempre lì e continuerà a vivere la sua incredibile storia con l’aria bonaria e severa del grande sognatore, intristito dai disincanti della vita, la testa sullo scrittoio, come gli piaceva chiamare il suo tavolo da lavoro di legno marrone, se ne sta lì, il naso a sfiorare fra china e pennini il rigo musicale che piano piano si riempie di note e di pause, di chiavi e di parole latine, se ne sta lì a sognare l’infanzia nella casa di vacanza a Deep, con suo padre a scoprire figure e colori nuovi e lui ad accompagnare con il flauto le immense distese del Mare del Nord.
CAPITOLO V | LA STORIA CONTINUA
C’è un Benevoli attuale, se così si può dire, che la cronaca ha ospitato nel ventesimo secolo. Nasce dal grande vuoto lasciato da Lorenzo Feininger, nasce da piccoli segnali sempre più marcati che dicono come la sua immensa eredità di armonie sia stata finalmente raccolta, in buona parte anche compresa. Tutto sta ad indicare, nello scorrere degli eventi culturali di oggi, che i secoli musicali abbracciati dal Coro del Concilio sono entrati in uno scenario moderno. Il nome di Benevoli è timidamente ricomparso nelle locandine dei concerti, ha arricchito il repertorio di corali affermate, nel nome di Feininger è nato nel 2000, anno del Giubileo, un Gruppo vocale votato al gregoriano. Si sono organizzati convegni e mostre, si sono ascoltate le voci della musicologia. “Il patrimonio di Feininger – dice il prof. Nino Pirrotta, grande studioso e musicologo di fama, aprendo un importante convegno a Trento – è di una ricchezza che non ha rivali. Ma soprattutto costituisce una base di lavoro ineguagliabile per la ricerca e per la disamina critica”.
“Lorenzo Feininger, la musicologia come missione”: il convegno ha un titolo allettante, ricco di scienza ma anche di umanità. È un primo vertice di studiosi che si riuniscono il 5 e 6 settembre 1985 al Castello del Buonconsiglio, aprono un varco nella barriera del tempo, fanno capire i perché di un oblio, le ragioni di una pericolosa deriva della cultura musicale sacra. Il meeting ha risonanza internazionale per le voci che raccoglie,[79] trasmette una sorta di euforia scientifica per questo ritorno al passato che ha avuto in Feininger il grande artefice e fa uscire alla luce proposte di studio destinate a non rimanere soltanto tali. Dice Pirrotta che tutto ciò che Feininger ha raccolto e ha lasciato al mondo rappresenta già il nucleo essenziale di un centro importantissimo di ricerche sulla musica sacra, dal canto liturgico alla polifonia. E quale idea migliore che far rientrare il tutto in un ambito istituzionale per essere sicuri che l’attività di ricerca continui, e così il potenziamento e così l’aggiornamento?
C’è inoltre l’occasione irripetibile di avere per la prima volta un panorama completo dei maestri anonimi del Quattrocento e ancora di avere un catalogo per compositori, uno per composizioni, un terzo per generi e un quarto per le fonti, le stampe, i manoscritti, un lavoro colossale e di una preziosità unica, come propone in una memoria al pubblico del meeting Edward Lowinsky.[80]
Il suggerimento rinforza un percorso già tracciato. Pochi mesi prima della scomparsa, Feininger aveva deciso infatti di cedere alla Provincia autonoma di Trento una prima raccolta di 95 codici (la cifra è simbolica, non è certo di valore reale), pensando però ad una successiva cessione dell’intera sua biblioteca. Era stato tentato, in un primo momento, di portare tutto il patrimonio a Salisburgo grazie ai buoni rapporti con il sindaco della città, orientato a istituire una “Fondazione Feininger” accanto alla casa di Mozart, dove è conservato fra l’altro il manoscritto della Salisburgensis. Non intendeva invece percorrere l’alternativa sollecitata da alcune Università americane, né quella di Villa I Tatti di Firenze. Il primo progetto non andò in porto per il veto dell’allora Sovrintendente ai beni artistici, Nicolò Rasmo. Con la Provincia stava inoltre definendo una consulenza che lo tenesse legato all’attività di ricerca e di recupero del patrimonio bibliografico musicale. La sua morte spegne il sogno ma non ne esaurisce la profondità. E così il cammino riprende.
Protagonista di questa sofferta ma avvincente campagna di consolidamento è Danilo Curti-Feininger. Sedotto dai “Tesori nascosti” – titolo di una rubrica giornalistica che don Lorenzo alimentava di tanto in tanto con analisi musicali e bozzetti di storia – Curti trasforma il passato in un viaggio verso il futuro. Trova, assieme ai fratelli di Lorenzo, Lux e Andreas, un accordo con il Museo degli Usi e Costumi di San Michele perché ospiti la “Biblioteca Feininger”, che per le leggi americane deve stare lontana dalla politica e quindi non può collocarsi in una istituzione, quale la Provincia autonoma di Trento, emanazione appunto della politica. San Michele offriva invece le garanzie richieste. Il passaggio successivo sarà quello di trasferire la Biblioteca al Castello del Buonconsiglio, decisione che trova l’artefice principale in Guido Lorenzi, all’epoca assessore provinciale alla cultura e presidente del Museo degli Usi e Costumi.
È così che la storia musicale di don Lorenzo si va a ricomporre piano piano, a partire dal 1976, in unità dentro il grande solco tracciato in lunghi anni di ricerche. È una storia che nei vent’anni del Coro era stata anche umana, profondamente umana. La morte sembra isolarla ora in un contesto esclusivamente artistico, anche se resta intenso il legame della città – che a Lorenzo Feininger ha dedicato una strada, a Gardolo, nel 2004 (amministrazione Pacher) dopo aver intitolato nel 1966 una strada a Orazio Benevoli (amministrazione Benedetti) –, degli ambienti vissuti, degli amici che gli hanno creduto. Solo che, lui assente, il lavoro di sistemazione e di catalogazione si fa essenziale, soltanto musica.
Una ricchezza musicale senza rivali, dice Pirrotta: tutto il Seicento e il Settecento della scuola polifonica romana, codici di gregoriano dal 1200 al 1700, mentre altri secoli – dal Quattrocento al Novecento – sono rappresentati in oltre mille volumi di liturgia musicale; e più di trecentomila stampe di microfilm e ancora le edizioni della Societas Universalis Sanctae Ceciliae.[81]
A questo cantiere musicale lavorano, dalla fine degli anni Settanta ai primi anni Ottanta Danilo Curti, Clemente Lunell, Fabrizio Leonardelli, Luciano Borrelli, padre Lino Mocatti e Pasquale Chistè, responsabile dell’Ufficio (poi Servizio) Beni librari e archivistici della Provincia, nella delicatissima fase di riordino, schedatura e restauro, vera e propria opera di ricamo per riportare i manoscritti alla veste originale, mettere mano alle rilegature dopo aver riparato i danni del tempo, ricollocando il tutto in un ambiente che sia al riparo da cambi di temperatura e dall’umidità, grazie anche all’opera di Barbara Giuffrida, restauratrice e amica di Feininger.
Quel primo convegno manda però altri segnali. Ad esempio l’auspicio che alle attività della Biblioteca musicale intitolata a Feininger non sia estraneo il mondo delle Università (in testa la nuova facoltà di Lettere a Trento). Tarcisio Andreolli, all’epoca assessore provinciale alla cultura, riconosce che la Provincia ha assolto solo in minima parte il programma culturale lasciato in eredità. Tutto muove dunque verso un futuro assetto più consolidato. Da una parte riordinare il patrimonio, risultato di quarant’anni di lavoro, che compare in una mostra allestita a margine del convegno nel Castello del Buonconsiglio; dall’altra dare voce ai grandi musicisti rilanciati dalle ricerche di Feininger. Ed è questa seconda parte del programma di Curti che coinvolgerà gruppi corali trentini e non trentini. A risvegliare l’interesse contribuiscono i due lavori colossali del caposcuola romano, la Missa Bruxellensis, in 23 parti, e la Missa Salisburgensis a 54 voci, attorno alla quale si riaccende peraltro la dialettica della paternità.[82]
A vent’anni dalla morte, nell’ottobre 1996, la figura di Lorenzo Feininger è protagonista nelle serate del Festival Internazionale Trento Musicantica, una rassegna che dal 1987 arricchisce l’autunno trentino, inventata dal Virtuoso Ritrovo,[83] che ne cura la direzione artistica. Del Comune di Trento è il finanziamento con l’organizzazione affidata al “Centro Servizi Culturali Santa Chiara”.
Il mondo di Feininger impreziosisce i programmi di quel Festival con le due Messe di Bruxelles e di Salisburgo e con un secondo convegno di studi, che porta a Trento esperti europei a confrontarsi sui temi della scuola policorale romana. Marco Gozzi, docente di musicologia all’Università di Lecce, avverte – nella presentazione al Convegno – che “il barocco romano è stato a torto considerato un prodotto di second’ordine, retorico, pomposo e privo di eccellenza d’arte e il giudizio era dettato dalla mancanza di conoscenza delle grandi composizioni a più cori sepolte negli archivi in copie di parti separate, onerose da trascrivere e dall’esecuzione costosissima dato il coinvolgimento di grandi masse corali”.
Il convegno, dal titolo La scuola policorale romana del Sei-Settecento, è presieduto dal prof. Francesco Luisi dell’Università di Urbino. Vi partecipano, nella Biblioteca Clesiana del Buonconsiglio, relatori di Londra, Regensburg, Parigi, Heidelberg, Edimburgo ed altri, una platea di molte lingue, a dimostrazione di quanto sia stato importante il riordino delle vecchie carte musicali operato da Feininger attingendo ad ogni possibile fonte europea.[84]
Nella stessa giornata del convegno il Coro della “Radio Svizzera” di Lugano e l’Ensemble Vanitas diretti da Diego Fasolis eseguono in San Francesco Saverio la Missa Bruxellensis, 23 parti.
Il giorno dopo, 6 ottobre, stessa chiesa, accompagnando una solenne Messa in latino in onore di Feiniger celebrata da don Giulio Cattin il Gruppo polifonico F. Coradini di Arezzo, diretto da Fabio Lombardo, canta la Benevola che il Coro del Concilio aveva imparato nel lontano 1951 ed eseguito a Roma nella sala Borromini di Corso Vittorio Emanuele. A Trento la riportano 46 anni dopo i coristi di Arezzo.
Nel frattempo le due Messe del Benevoli, oggi ascritte ad Heinrich Biber, hanno trovato altri interpreti. Nel Veneto la Stagione Armonica di Sergio Balestracci, in Olanda L’Amsterdam Baroque di Tom Koopman, in Germania la Musica Antiqua Köln di Reinhard Goebel e la Cappella Royal De Catalunya di Jorel Savall in Spagna. Benevoli però non è andato oltre questo orizzonte. È rimasto solo Il Virtuoso Ritrovo a tenere alta l’attenzione sul caposcuola romano con le iniziative legate al Festival Trento Musicantica.
Non mancano presenze importanti anche nei Festival successivi, con esecuzioni di pagine gregoriane tratte dai manoscritti della Biblioteca Feininger e un terzo convegno sul canto liturgico nell’edizione del ’98, mentre del 1999 è un imponente concerto dedicato a Orazio Benevoli e alla scuola policorale romana. Lo dirige Roberto Gianotti il 30 ottobre riunendo in San Francesco Saverio la Corale Città di Trento (della quale è direttore), il Coro Castelbarco di Avio, il Coro Ars Cantandi di Brunico, Il Virtuoso Ritrovo (di cui è fondatore assieme ad Armando Franceschini) e l’Ensemble strumentale Harmonices Mundi di Claudio Astronio. Vengono eseguiti tre Salmi policorali di Benevoli (un Confitebor, il Laudate Pueri e un Dixit a sedici voci) e la Missa Magia di Pitoni a otto voci: quattro pezzi del vecchio repertorio del Coro del Concilio. Il risultato è di grande suggestione. I quattro complessi corali sono organizzati, nella scenografia del concerto, in questo modo: il primo e il quarto coro davanti ai due altari laterali a sinistra e a destra del direttore, il secondo e il terzo sull’altare centrale; al centro il gruppo strumentale formato da organo, clavicembalo, violoncello barocco, fagotto barocco e violone realizzava un corposo basso continuo, come i recenti studi di prassi esecutiva barocca suggeriscono.
Il concerto riporta il pubblico dei coristi di un tempo alle lontane prime emozioni, anche se la strada per avvicinarsi a questo vecchio libro della musica non è più la stessa, ma è frutto di una lettura moderna e di un approccio professionistico.
Ma non sono sufficienti le occasioni costruite anno per anno dentro i depliant di “Musicantica”. I tempi sono maturi per proporre qualcosa di più ed è così che mezzo secolo dopo la nascita del Coro del Concilio, creatura tormentata di Lorenzo Feininger, nasce nell’anno del Giubileo 2000 il Gruppo vocale Laurence K.J. Feininger, un organico specializzato nel canto gregoriano – prima grande passione di Feininger – all’interno de Il Virtuoso Ritrovo.
L’idea salta fuori – si direbbe per caso, ma è invece nell’ordine delle cose – al momento di organizzare nell’anno santo 2000 la mostra Jubilate Deo: miniature e melodie gregoriane, che indica al grande pubblico l’immenso e trascurato repertorio sacro conservato nella “Biblioteca Feininger”. Il proposito è quello di predisporre negli spazi del Buonconsiglio postazioni multimediali per un ascolto guidato dei canti della tradizione cristiana, in contemporanea alla visione dei codici esposti nelle sale. Roberto Gianotti, Marco Gozzi, Salvatore De Salvo Fattor creano dunque, assieme a Danilo Curti, il Gruppo Feininger che, dopo la registrazione delle musiche per commentare la mostra delle miniature gregoriane (da cui nasce il primo disco), fa il suo esordio alla “Fondazione Ugo e Olga Levi” di Venezia il 5 settembre 2000. Nelle atmosfere cinquecentesche di Palazzo Giustiniani Lolin i tre eseguono brani dei momenti principali dell’anno liturgico (nei suoi due cicli: Temporale e Santorale) e la novità è che sono cantati direttamente dai manoscritti e dai libri a stampa posteriori al XIV secolo, per evidenziare lo straordinario valore del canto cristiano liturgico tardo, appartenuto – sino all’Ottocento – ad una tradizione viva e vitale, come Feininger aveva dimostrato raccogliendo manoscritti e edizioni liturgiche di tutte le epoche.
Si è detto ampiamente del grande amore di Feininger per il gregoriano, per queste spirali di melodie che davano senso alle parole, ai gesti, ai misteri della liturgia. Obbligata dunque la dedica gregoriana del Gruppo vocale, nato con il nome del grande studioso.
Il Gruppo Feininger affronta la nuova avventura con la massima serietà filologica. Le novità ritmiche, melodiche e interpretative del canto liturgico tardo e periferico proposte, dopo attento studio dei libri liturgici, manoscritti e a stampa, sono assolutamente inedite nel panorama delle incisioni e dei concerti dedicati a questo canto e svelano un volto sinora nascosto del tesoro musicale della tradizione cattolica.
A Venezia il Gruppo ritorna per altri concerti nel 2001, anno liturgico del gregoriano. Gli appuntamenti crescono di spessore. Canta per la “Scuola Grande di San Rocco”, riceve una prima menzione speciale ad Arezzo nella categoria “canto monodico cristiano” nello stesso anno, conquista poi il secondo posto per due anni di seguito, nel 2005 e nel 2006 (primo posto non assegnato). Anche l’organico segue le necessità e la ricchezza del repertorio. Ai tre fondatori, che costituiscono l’ossatura fissa, si affiancano via via Ervino Gonzo, Walter Marchi, Franco Pocher, Fabio Bonatti.
Nel 2006 è invitato in Francia per una tournée di cinque concerti nelle chiese romaniche della Borgogna e per altrettanti seminari sul canto gregoriano nell’ambito della nona “Printemps culturel – Pays d’art ed d’histoire du Mont Beauvray”. Collabora intanto con Roberto Gini, riproponendo musiche di Monteverdi (Vespri e Messe) con la ricostruzione di effettive liturgie in lingua latina. Gli eventi, svoltisi in due edizioni del “Festival internazionale della Val di Noto – Magie Barocche”, confluiscono in un DVD realizzato dal vivo a Catania.
Il Gruppo approfondisce la ricerca sul canto cristiano liturgico dedicando due dischi e una serie di concerti al canto fratto, un genere del repertorio gregoriano scritto con una notazione che esprime anche il valore delle note, la scansione del tempo oltre all’altezza. Gozzi, Gianotti e De Salvo oltrechè cantori sono studiosi, cercano le ragioni dentro le pieghe della storia, lavorano per un progetto interuniversitario di rilevante interesse nazionale cofinanziato dal Ministero, coordinato dal prof. Marco Gozzi.[85]
Si arricchisce parallelamente anche il calendario del Festival Trento Musicantica. Nell’edizione del 2003 viene affidata alla Stagione Armonica di Balestracci l’esecuzione della Missa Salisburgensis; nel 2005 Orazio Benevoli è ricordato a quattrocento anni dalla nascita attraverso pagine trascritte da Feininger: Carissimi e Benevoli interpretati dal Gruppo di Balestracci, mottetti della “Biblioteca Feininger” eseguiti da Il Virtuoso Ritrovo, e ancora la Missa Pastoralis e altri mottetti affidati alla Corale Città di Trento, alla Cantoria Sine Nomine di Castelbarco e ai due Cori del Conservatorio “Bonporti” di Trento e Riva del Garda. Nel 2006, infine, l’omaggio a Feininger a trent’anni dalla morte. Quattro concerti, cinque gruppi di interpreti.
Gli anni del Coro del Concilio, che vogliamo definire eroici, sono stati vissuti anche per il raggiungimento di una cultura musicale specifica, votati alla conquista di un sapere di cui si ignorava perfino l’esistenza finchè Lorenzo Feininger non ne ebbe violato il secolare silenzio. Da quel momento, riportati alla luce i tesori del canto liturgico, è cominciata la grande avventura – dalla polifonia barocca al gregoriano al canto fratto – con tutti gli arricchimenti lungo il percorso, con gli interpreti che si sono moltiplicati, con platee di volta in volta diverse. Quella che è stata una lezione di vita continua ad essere una lezione nel tempo.
NOTE
[1] Lettera ai genitori, 26 novembre 1950. Trento, Archivio Coro del Concilio presso Danilo Curti-Feininger.
[2] Trento, Archivio della Direzione didattica delle Scuole Crispi – Corrispondenza (a. 1949). Collocazione provvisoria: scatola 118.
[3] Vedi nota 2.
[4] Trento, Archivio della Direzione didattica delle Scuole Crispi – Corrispondenza (a. 1948). Collocazione provvisoria: scatola 108.
[5] “Famiglia Trentina” è un’organizzazione fondata nel 1948 da mons. Carlo Callovini, un trentino che opera in Vaticano, per dare un riferimento di luogo e di cultura a quanti si erano trasferiti nella capitale.
[6] Il prof. Nino Pirrotta terrà la relazione Laurence Feiniger, la musicologia come missione al convegno su Feininger, 6-7 settembre 1985 – Trento, Castello del Buonconsiglio.
[7] Dall’«Annuario dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia», anno 1950, pp. 354 e 439.
[8] Lettera a Feininger del Consigliere tecnico maestro Mario Corti, 23 febbraio 1951. Roma, Accademia nazionale di Santa Cecilia – Archivio storico (ANSC-AS), archivio postunitario, carteggio 1945-1967, anno 1951-1952, Titolo XI (Istituzioni liriche e concertistiche), Coro del Concilio – Trento.
[9] Dall’«Annuario dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia», anno 1950, p. 388.
[10] «Il Popolo Trentino», 17 novembre 1950.
[11] «Il Giornale d’Italia», 30 novembre 1950.
[12] «L’Osservatore Romano», 23 novembre 1950.
[13] «Vita Trentina», 14 dicembre 1950.
[14] Lettera del febbraio 1950, citata in T. Lux Feininger, Per una storia del ‘Coro del Concilio’, in: I codici musicali trentini a cento anni dalla loro riscoperta: atti del convegno “Laurence Feininger, la musicologia come missione”, Trento, Castello del Buonconsiglio, 6-78 settembre 1985, a cura di Nino Pirrotta e Danilo Curti, Trento, Provincia Autonoma di Trento, Servizio Beni culturali, 1986, p. 24.
[15] Da una lettera di L. Feininger a padre Werenfried van Straaten, segretario dell’Opera “Aiuto alla Chiesa che soffre”, del 3 agosto 1972. Trento, “Miscellanea Feininger” presso Danilo Curti-Feininger.
[16] L’informazione è contenuta nel lavoro di Lux Feininger, Per una storia del ‘Coro del Concilio’, p. 23.
[17] Lettera a casa, 10 maggio 1948, raccolta da Lux Feininger, Per una storia del ‘Coro del Concilio’, p. 23.
[18] Per un approfondimento critico sui metodi editoriali seguiti da Feininger si rimanda al saggio di Edward Lowinsky, Laurence Feininger (1909 – 1976). La vita, l’opera, l’eredità spirituale, in: La Biblioteca musicale Laurence K.J. Feininger: Trento, Castello del Buonconsiglio, 6 settembre – 25 ottobre 1985, a cura di Danilo Curti – Fabrizio Leonardelli, Trento, Provincia Autonoma di Trento, Servizio Beni culturali, 1985, pp. 8-36.
[19] Lettera alla famiglia, 5 settembre 1948, citata nel saggio di Lux Feininger, Per una storia del ‘Coro del Concilio’, p. 23.
[20] Da un articolo di Lorenzo Feininger in «Bollettino di San Vigilio», 1950.
[21] Lettera alla famiglia, 18 settembre 1949, dal saggio di Lux Feininger, Per una storia del ‘Coro del Concilio’, p. 23.
[22] Circolare in ciclostile datata 24 gennaio 1950, presso Piergiuliano Cembran.
[23] Lettera alla famiglia, 27 settembre 1949, citata nel saggio di Lux Feininger, Per una storia del ‘Coro del Concilio’, p. 23.
[24] Dai diari di Iginio Mattei, Museo storico di Trento.
[25] Dal libro di Gian Pacher , Te ricordet? 16 storie trentine, Trento, TEMI, 1980.
[26] Lettera alla famiglia, 9 maggio 1950 citata nel saggio di Lux Feininger, Per una storia del ‘Coro del Concilio’, p. 24.
[27] Trento, Archivio della scuola elementare “F. Crispi”, Giornale della classe, a. s. 1949-1950 (relativi alle classi IV e V della “scuola mista” e scuola maschile “Crispi”), collocazione provvisoria: scatola n. 271.
[28] Vedi nota 27.
[29] Da una “Nota illustrativa” di Lorenzo Feininger: La messa Maria Prodigio celeste o Benevola. Trento, Archivio Coro del Concilio presso Danilo Curti-Feininger.
[30] Dagli Atti del congresso internazionale di musica sacra organizzato dal Pontificio istituto di musica sacra e dalla Commissione di musica sacra per l’anno santo (Roma, 25-30 maggio 1950), a cura di Igino Anglès, Tournai, Desclée, 1952.
[31] Pio X, Motu proprio Tra le sollecitudini sulla musica sacra, 22 novembre 1903, Cap. V, comma 13. Il Motu proprio è accessibile in traduzione italiana all’indirizzo web <http://www.vatican.va/holy_father/pius_x/motu_proprio/documents/hf_p-x_motu-proprio_19031122_sollecitudini_it.html>.
[32] Pio XII, Enciclica Mediator Dei sulla sacra liturgia, paragrafo 39. Cfr. <http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/encyclicals/ documents/hf_p-xii_enc_20111947_mediator-dei_it.html>.
[33] 1 Cor. 14, 34.
[34] Dattiloscritto dal titolo: “Quesito da sottoporre alla Sacra Congregazione dei Riti” – Roma, Palazzo di S. Calisto. Il documento non è datato, ma evidentemente è stato redatto in vista della tournée romana del novembre 1950. Per una maggiore comprensione del problema viene utilizzato in anticipo rispetto alla cronologia degli avvenimenti. Trento, Archivio Coro del Concilio presso Danilo Curti-Feininger.
[35] Amelio Fiorini, Monsignor Celestino Eccher, Trento, Scuola diocesana di musica sacra, 1982.
[36] In Lowinsky, Laurence Feininger, cit., p. 19; lettera datata 1 novembre 1968.
[37] In Lowinsky, Laurence Feininger, cit., p. 31.
[38] «Voci Bianche», ottobre 1953.
[39] «Il Popolo Trentino», 17 giugno 1950.
[40] «Il Popolo Trentino», 23 giugno 1950.
[41] Circolare del 5 maggio 1950. Trento, Archivio Coro del Concilio presso Danilo Curti-Feininger.
[42] Da «Vita Trentina», 23 agosto 1998, rubrica “Dialogo aperto”.
[43] Lettera di Feininger, data imprecisata, Archivio Cembran.
[44] «Voci Bianche», 15 ottobre 1950.
[45] In Vox Cantantium, che si esaurirà al decimo numero negli ultimi mesi del 1952, Feininger propone argomenti di specifico interesse dei cantori adulti. Avvierà anche una biografia di Benevoli e approfondirà le ragioni delle scelte del repertorio Barocco.
[46] «Voci Bianche», numeri di gennaio 1951 e aprile 1951.
[47] «Vox Cantantium», aprile 1951.
[48] In “Rassegna musicale trentina per il 1950”, dall’archivio Lunelli. Un riferimento alla coralità alpina lo si trova anche nel passo che segue, tratto da “The Italian Scene”, bollettino di informazione culturale della Divisione culturale dell’Ambasciata italiana di New York, maggio 1956.
[49] Alcuni manoscritti la indicano come Missa Benevola a 16 voci, un altro codice della Cappella Giulia la riporta con il titolo Maria Prodigio Celeste. Nessuna delle fonti a disposizione è autografa, tutti i manoscritti superstiti sono copie.
[50] «Voci Bianche», febbraio 1951.
[51] Lettera alla famiglia, 20 marzo 1951, citata nel saggio di Lux Feininger, Per una storia del ‘Coro del Concilio’, p. 28.
[52] «Vox Cantantium», maggio 1951.
[53] «l’Adige», 19 giugno 1951.
[54] Lettera di convocazione del 17 marzo 1951. Trento, Archivio Coro del Concilio presso Danilo Curti-Feininger.
[55] Lettera del 9 maggio 1950 in Lux Feininger, Per una storia del ‘Coro del Concilio’, p. 24.
[56] «Voci Bianche», giugno 1951.
[57] Danilo Curti, La formazione di una biblioteca di musica liturgica, in: La Biblioteca musicale Laurence K.J. Feininger, cit., pp. 37-49.
[58] «Voci Bianche», maggio 1952.
[59] Renato Lunelli, Un grande compito, in «Voci Bianche», numero di Natale 1953.
[60] Domanda di sussidio alla Presidenza della Giunta provinciale, maggio 1953, con allegati relazione sull’attività artistica 1950, 1951, 1952, relazione finanziaria relativa al 1952 e al 1953 e due documenti di approfondimento artistico-musicale.
[61] Lettera stampata in quattro fogli dal titolo Amici carissimi dalle voci belle e bianche e no! – Trento, maggio 1954. Trento, Archivio Coro del Concilio presso Danilo Curti-Feininger.
[62] Lettera del 3 settembre 1954. Archivio Piergiuliano Cembran.
[63] Lettera di Alessandro Bustini, presidente dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia a Lorenzo Feininger, 21 ottobre 1954; Roma, ANSC-AS, Archivio postunitario, carteggio 1945-1967, anno 1954-1955, Titolo X, Fasc. “Manifestazioni culturali” s.f. “Feininger Lorenzo”.
[64] “Coro del Concilio – Trento”; Atto costitutivo di Associazione e statuto, 7 gennaio 1956. Trento, Archivio Coro del Concilio presso Danilo Curti-Feininger.
[65] Tutta la musica barocca prevede l’accompagnamento del basso continuo che Feininger ha sempre realizzato con l’organo, fin dal primo repertorio del 1949, affidando la parte ad organisti diversi che si sono succeduti negli anni. Spesso nelle prove di registrazione era lo stesso Feininger che sosteneva la parte del basso continuo o qualche corista.
[66] Lettera a Piazza, Mazzucato, Piergiuliano e Antonio Cembran, 5 febbraio 1956. Archivio Cembran.
[67] Lettera al Consiglio dei Quattro, New York, 13 febbraio 1956. Archivio Cembran.
[68] «Il Gazzettino», 1 novembre 1956, critica a firma F.M.
[69] «l’Adige», 26 novembre 1956, critica a firma R.L.
[70] «l’Adige», 2 novembre 1955, Tutta la vita in fa maggiore, a firma G.G.
[71] Journal of the Epiphany Boys’ Choir of New York. Un unico foglio scritto in inglese e datato Trento, aprile 12, 1960. Trento, Archivio Coro del Concilio presso Danilo Curti-Feininger.
[72] Estratto di verbale deliberazione n. 59, Comune di Trento, 5 giugno 1959 con allegata deliberazione Giunta provinciale seduta 10 luglio 1959; «Il Gazzettino», 6 giugno 1959; «Alto Adige», 6 giugno 1959; «Alto Adige», 6 novembre 1961: Lyonel Feininger all’«Argentario», un malinconico congedo, a firma Bruno Passamani.
[73] Antonio Carlini, Duecento anni di musica, in In Banda, a cura di Antonio Carlini, Antonio Cembran, Armando Franceschini, Trento, Federazione Corpi Bandistici, 1990.
[74] Datata 4 dicembre 1963; cfr. I documenti del Concilio Vaticano II: costituzioni, decreti, dichiarazioni, a cura di Antonio Girardo, Milano, Paoline, 1987, pp. 50-53.
[75] Per il testo completo si veda all’indirizzo: <http://www.organisti.it/musicam_sacram.htm>.
[76] Laurence Feininger, lettera a «l’Adige», ###.
[77] Guido Milanese, Peccato, Maestro! Ma come, Maestro! Latino, gregoriano, musica sacra oggi. In memoria di Laurence Feininger, a vent’anni dalla morte, accessibile all’indirizzo: <http://digilander.libero.it/gregduomocremona/milanese.htm>.
[78] Traduzione italiana: Uwe m. Lang, Rivolti verso il Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, Siena, Cantagalli, 2006.
[79] Cfr. I codici musicali trentini a cento anni dalla loro riscoperta: atti del convegno “Laurence Feininger, la musicologia come missione”, Trento, Castello del Buonconsiglio, 6-78 settembre 1985, a cura di Nino Pirrotta e Danilo Curti, Trento, Provincia Autonoma di Trento, Servizio Beni culturali, 1986. Altri contributi letti al convegno sono in La Biblioteca musicale Laurence K.J. Feininger, cit.
[80] Nino Pirrotta, Laurence Feininger: la musicologia come missione, in La Biblioteca musicale Laurence K.J. Feininger, cit., pp. 12-15.
[81] Sono 142 i volumi pubblicati nelle collane della Societas Universalis Sanctae Ceciliae dal 1957 al 1975. Cfr. Clemente Lunelli, Societas universalis sanctae Ceciliae (1947-1975), diretta da Laurence Feininger: catalogo delle edizioni musicali, Trento, Provincia Autonoma di Trento, Servizio Beni culturali, 1989.
[82] Cfr. La policoralità in Europa al tempo di Paris Lodron. Missa Salisburgensis: Biber contra Benevoli. Atti del Convegno internazionale di studi “Paris Lodron e la musica del suo tempo”, Rovereto – Sala conferenze Mart, 14 dicembre 2003, a cura di Antonio Carlini, Danilo Curti-Feininger, Siegfried Gmeinwieser, Trento, Provincia autonoma di Trento – Soprintendenza per i Beni librari e archivistici, 2006.
[83] Il Virtuoso Ritrovo è un gruppo vocale da camera costituito in Associazione, fondato nell’ottobre 1981 da Armando Franceschini e Roberto Gianotti. Primo presidente Marco Banal, primo direttore Armando Franceschini. Attuale direttore è Roberto Gianotti, mentre alla presidenza si sono succeduti Marco Materassi, Antonio Cembran, Danilo Curti e ancora Cembran, presidente attuale.
[84] Cfr. La scuola policorale romana del Sei-Settecento. Atti del Convegno Internazionale di studi in memoria di Laurence Feininger (Trento, Castello del Buonconsiglio, 4-5 ottobre 1996), a cura di Francesco Luisi, Danilo Curti e Marco Gozzi, Trento, Provincia autonoma di Trento – Servizio Beni librari e archivistici, 1997.
[85] Il progetto RAPHAEL (acronimo che deriva dalla titolazione inglese: Rhythmic And Proportional Hidden or Actual ELements in Plainchant (1350-1750) [elementi ritmici e proporzionali nel canto piano dal 1350 al 1750]), nato nel 2002 come programma di ricerca interuniversitario, promosso dalle Università di Lecce, Padova, Pavia e Parma in collaborazione con la Fondazione Guido dArezzo con lo scopo di indagare e divulgare, nella pluralità dei suoi aspetti e con il supporto delle tecnologie informatiche, un repertorio trascurato di grande pregio artistico e religioso conservato nelle biblioteche italiane (e in particolare in quelle ecclesiastiche), facendo rivivere attraverso lo studio e la riproposizione in concerto e in disco un’esperienza di canto liturgico quasi completamente dimenticata: il cosiddetto canto fratto.